Adriano Favole

Quando il vero padre era lo zio materno: le altre convivenze
Cosa insegnano gli studi sulle società primitive

Negli anni della Prima guerra mondiale Bronislaw Malinowski, il fondatore dell’antropologia sociale britannica, compì una lunga ricerca alle isole Trobriand, al largo di Papua Nuova Guinea. E scoprì che in quelle isole un individuo apparteneva al gruppo della propria madre (discendenza matrilineare) e che la figura del padre biologico era distinta da quella del padre sociale. Il genitore biologico passava molto tempo con i figli, ma il suo era un rapporto basato sull’affetto più che sull’autorità. Il «vero» padre sociale era lo zio materno: era costui che educava i figli della sorella, che trasmetteva loro i diritti sulla terra, le ricchezze e le prerogative politiche. In un celebre libro (Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, Bollati Boringhieri) Malinowski mise in dubbio l’universalità del complesso di Edipo. Gli adolescenti delle Trobriand non sognavano di uccidere il padre (semmai lo zio materno!), perché, in effetti, vivevano in una famiglia ben diversa da quella dei loro contemporanei europei.
In poco più di un secolo di studi, gli antropologi hanno accumulato un vasto insieme di conoscenze sulla variabilità delle forme di famiglia. Quando, nel febbraio del 2004, George W. Bush, propose un emendamento alla Costituzione americana per «definire e proteggere il matrimonio di un uomo e di una donna come marito e moglie», alla luce del fatto che «l’unione di un uomo e di una donna è la più duratura istituzione umana, onorata e incoraggiata in tutte le culture e da tutte le fedi religiose», l’American Anthropological Association rispose in modo stizzito: osservò che la famiglia basata sull’unione coniugale eterosessuale non poteva considerarsi né «naturale» né «universale», ma che un secolo di studi aveva portato alla luce una vasta gamma di tipi di famiglie, comprese unioni omosessuali.
Anche in Italia, in tempi più recenti, i ripetuti richiami di Benedetto XVI alla naturalità della famiglia eterosessuale hanno suscitato le reazioni degli antropologi culturali: Francesco Remotti ha indirizzato al Papa una ideale «lettera» (Contro natura, Laterza), nella quale passa in rassegna i casi di società africane, americane, asiatiche, oceaniane e, non ultimo, europee che si discostano dal modello di famiglia fondato sul matrimonio e sulla coabitazione tra un uomo, una donna e i loro figli.
Tra i Nuer del Sudan studiati negli anni Trenta da Edward Evans-Pritchard, si trovavano vari tipi di famiglia. Famiglie estese con al centro la famiglia nucleare, certo,ma anche famiglie basate sulla coresidenza di due donne e dei loro figli. Il «matrimonio tra donne» dei Nuer non era un’unione omosessuale: quando una donna era sterile, essa finiva per separarsi dal marito e tornare a vivere con i suoi fratelli. Comportandosi come se fosse uno di loro, assumeva un ruolo «maschile», tanto che i fratelli le cercavano una giovane moglie con cui (per il tramite di un fecondatore maschio) poteva generare dei figli che la chiamavano «padre». Gli stessi Nuer praticavano quello che venne definito il «matrimonio con il fantasma»: se un uomo moriva prima di generare figli, la moglie poteva unirsi sessualmente con qualcuno dei suoi fratelli, generando figli che erano considerati come progenie del defunto (un po’ come nel levirato biblico, in effetti).
In molte società di nativi americani delle grandi pianure esistevano persone che, non identificandosi né con il genere maschile né con quello femminile, andavano a occupare una sorta di «terzo genere». Questi individui, detti oggi two-spirits («due anime»), occupavano ruoli rituali importanti e potevano anche sposarsi con altri uomini: in queste unioni, i due coniugi si dividevano i ruoli sociali di «marito» e «moglie», indipendentemente dal sesso biologico.
Tra i Nayar del Kerala in India e tra i Na dello Yunnan (Cina), le famiglie erano costituite da fratelli e sorelle che vivevano insieme. I compagni delle sorelle erano uomini con cui esse avevano rapporti sessuali (essendo l’incesto severamente punito), ma che non potevano essere considerati in alcun modo né «mariti» e né «padri», almeno nel senso sociale del termine. I bambini crescevano nel gruppo dei siblings (fratelli e sorelle) che costituiva l’unità domestica.
Famiglie come quelle dei Nuer, dei nativi americani, dei Nayar e dei Na — per non dire della grande diffusione delle unioni poliginiche — ci possono apparire strane e stravaganti: e tuttavia, a che titolo la famiglia coniugale dovrebbe essere considerata più naturale? La situazione si complica ulteriormente se guardiamo agli studi compiuti sulle forme di famiglia in occidente, sia in chiave storico-demografica (R. Wall, J. Robin, P. Laslett, Forme di famiglia nella storia europea, Il Mulino) sia in chiave antropologica (P.G. Solinas, L’acqua strangia, Franco Angeli). Anche in Europa le forme della famiglia si sono continuamente trasformate in risposta a pressioni di tipo politico, economico e ideologico. L’idea secondo cui la famiglia abbia vissuto una lenta, ma inesorabile transizione da forme estese alla forma nucleare o coniugale è stata ampiamente smentita. Tra l’altro è quanto meno curioso notare che nelle società di caccia e raccolta, considerate a lungo come culture arcaiche, la famiglia nucleare sia in genere prevalente. E non si tratta solo di guardare al passato: proprio in questi ultimi anni sono emersi gruppi domestici formati da una donna e dai suoi figli (famiglia matrifocale), da coniugi divorziati che formano nuove unioni insieme ai figli avuti da matrimoni precedenti (famiglie ricomposte), oltre alle sempre più pressanti richieste di coppie omosessuali di potersi unire in matrimonio, generando o adottando a loro volta dei figli.
Forse, piuttosto che difendere la naturalità dei principi strutturali della famiglia nucleare (l’unione sessuale tra un uomo e una donna e la procreazione), potremmo osservare con Pier Paolo Viazzo e Francesco Remotti (La famiglia, Università Bocconi) che «se c’è un bisogno universale a cui queste diverse forme sembrano rispondere, questo è il bisogno di ovviare alla solitudine dell’individuo». È lo stare insieme, il condividere spazi e risorse, il promuovere cooperazione e solidarietà che spiega la varietà di gruppi domestici a cui l’umanità ha dato vita.

Il Corriere della sera 4 novembre 2012