Di origine genetica, ma con scopi metafisici rivela la nostra vera natura. E ci ridà una totalità di esseri umani la spiritualità, il nostro quarto istinto, ci salverà. Negli esseri umani, l'istinto alla spiritualità è innato. È il nostro quarto istinto, accanto a quello di sopravvivenza, all'istinto del potere e a quello sessuale. È un istinto di origine genetica, fisico ma dallo scopo metafisico. È una naturale fame di nutrimento sovrannaturale. Ci spinge a cercare un significato, e a trascendere la nostra dimensione terrena. È il rifiuto di una dualità fasulla, e l'accettazione di un'interezza che corrisponde alla nostra vera natura. Oggi esistono prove scientifiche che illustrano il funzionamento di questo quarto istinto. «Anche tra le persone che considerano la vita spirituale come una suggestione illusoria», scrive Jeffrey Kluger della rivista Time, «va diffondendosi l'idea che gli esseri umani non possano sopravvivere senza... Il bisogno di Dio potrebbe essere un tratto fondamentale che va imprimendosi sempre più profondamente nel nostro genoma con il succedersi delle generazioni. Gli esseri umani che hanno sviluppato una sensibilità spirituale sono vissuti con pienezza e hanno tramandato questo tratto ai loro figli. Quelli che non l'hanno fatto, hanno rischiato di estinguersi nel caos e nella furia omicida». Come la paura, anche la spiritualità avrebbe quindi un fine evolutivo. È la stessa tesi sostenuta nel libro The God Gene: How Faith Is Hardwired into Our Genes (più o meno Il gene di Dio: la natura genetica della fede nel genere umano, inedito in Italia, ndr) del biologo molecolare Dean Hamer. «La spiritualità umana», scrive Hamer, «possiede una componente genetica innata. Questo non significa che esista un gene a causa del quale le persone credono in Dio, ma indica che gli esseri umani ereditano una predisposizione alla spiritualità, una tensione verso la ricerca di un'entità superiore». Jung colse con chiarezza l'importanza del nostro istinto spirituale. Era assolutamente convinto che tra i suoi pazienti dai trentacinque anni in su, «non ve ne sia stato uno il cui problema non fosse, in un'ultima istanza, legato alla necessità di sviluppare una visione religiosa della vita. Posso dire con certezza che ognuno di loro si era ammalato perché aveva perduto ciò che le religioni viventi in ogni epoca hanno dato ai loro seguaci. E che nessuno di essi è realmente guarito finché non ha riacquistato la visione religiosa della vita. Questo, naturalmente, nulla ha a che vedere con una determinata fede o con l'appartenenza a una chiesa». Se continuiamo a vivere in una condizione di paura esistenziale, è dunque probabile che abbiamo perso la visione religiosa. Non abbiamo ancora attivato il nostro "gene di Dio". O, per dirla in un altro modo, non abbiamo ancora incominciato a vivere seguendo il nostro quarto istinto. E la paura, in fin dei conti, è una forma di ateismo, un rifiuto emotivo dell'idea che possa esistere qualcosa di più grande di noi, piccoli, temporali e temporanei come siamo. «Interroga la tua anima!», esorta Herman Hesse nel libro Il mio credo. «La tua anima non ti accuserà di esserti interessato poco di politica o di avere lavorato troppo poco, di non avere odiato abbastanza i nemici e di non avere munito a sufficienza i confini». «Ma forse ti accuserà di aver avuto troppo spesso paura, di avere scantonato di fronte alle sue sollecitazioni, di non aver mai avuto tempo per dedicarti a lei - la più giovane e ammirevole delle tue creature - per giocare con lei, per ascoltare il suo canto». «Ti accuserà di averla spesso venduta per denaro, tradita per qualche vantaggio... Sarai per sempre nervoso e tediato - così dice la tua anima - se mi trascuri; così resterai e così perirai, se non ti rivolgerai a me con amore e sollecitudine interamente nuovi». di Arianna Huffington Home page > Etno-antropologia e letteratura > |
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