Perchè serve una prospettiva diversa
Nel gennaio scorso Ferraris e io eravamo a Parigi, e al termine di una sua conferenza sul futuro della decostruzione qualcuno gli ha chiesto: «Ma perché senti tutta questa necessità di richiamarti al realismo e ai fatti? In fondo, le interpretazioni possono dare libertà». Ferraris ha risposto: «È vero. Ma possono anche negare tutto, comprese le peggiori tragedie della storia». Ripensandoci, è lì che è nata l'idea di un convegno sul "New Realism". Se trascuriamo questa circostanza, si finisce nel nichilismo, una posizione che costituisce un problema non solo dal punto di vista teorico (perché è una negazione del sapere) ma anche, e soprattutto, dal punto di vista morale, perché se si sostiene che tutto è fluido e tutto è interpretabile anche il passato può essere riscritto.
C’è un altro segnale importante che, secondo me, viene dal "Nuovo Realismo", e che è particolarmente significativo per chi, come me, si è trovato a vivere e a lavorare in situazioni culturali molto diverse e a volte contrapposte (dall’Inghilterra alla Francia alla Serbia). Il postmodernismo, malgrado la sua pretesa di cosmopolitismo filosofico, era in effetti una teoria che si limitava alla cosiddetta "filosofia continentale". Con la svolta realistica si sta facendo esperienza di un dialogo tra scompartimenti un tempo non comunicanti, per esempio fra temi che vengono da filosofi analitici, come Searle, e temi che vengono da filosofi continentali, come Derrida. Questo aspetto non mi sembra puramente formale, e tocca la sostanza del lavoro filosofico. Perché "Nuovo Realismo" significa confrontarsi sulle cose, senza limitarsi a chiedersi l’un l’altro "da dove parli?", il gioco postmoderno che spesso riduceva i confronti filosofici alla deferenza nei confronti dei rituali della propria tribù di appartenenza. (L’autore è direttore dell’Institute of Philosophy and Social Theory di Belgrado. Tra le sue pubblicazioni recenti: World Governance uscito nel 2010 per "Cambridge").
Repubblica, 26 agosto 2011 |
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