Metti via quel telefonino

Qualche tempo fa, all’Accademia di Spagna di Roma, stavo tentando di parlare, ma una signora mi sbatteva in faccia una luce accecante (per poter azionare bene la sua telecamera) e mi impediva di leggere i miei appunti. Ho reagito in modo molto risentito dicendo (come mi accade di dire a fotografi indelicati) che quando lavoro io devono smettere di lavorare loro, per via della divisione del lavoro; e la signora ha spento, ma con l’aria di aver subito un sopruso. Proprio la settimana scorsa, a San Leo, mentre si lanciava una bellissima iniziativa del Comune per la riscoperta dei paesaggi montefeltrani che appaiono nei dipinti di Piero della Francesca, tre individui mi stavano accecando con dei flash, e ho dovuto richiamarli alle regole della buona educazione. Si noti che in entrambi i casi gli accecatori non erano gente da Grande Fratello, ma presumibilmente persone colte che venivano volontariamente a seguire discorsi di un certo impegno. Tuttavia evidentemente la sindrome dell’occhio elettronico li aveva fatti discendere dal livello umano a cui forse aspiravano: praticamente disinteressati a quel che si diceva, volevano solo registrare l’evento, magari per metterlo su YouTube. Avevano rinunciato a capire che cosa si stesse dicendo per far memorizzare al loro telefonino quello che avrebbero potuto vedere con i loro occhi.

QUESTO PRESENZIALISMO di un occhio meccanico a scapito del cervello sembra dunque aver mentalmente alterato anche persone altrimenti civili. Che saranno uscite dall’evento, a cui avevano presenziato, con qualche immagine (e sarebbero stati giustificati se io fossi stato una spogliarellista) ma senza nessuna idea di ciò a cui avevano assistito. E se, come immagino, vanno per il mondo fotografando tutto ciò che vedono, sono evidentemente condannati a dimenticare il giorno dopo quello che hanno registrato il giorno prima.Ho raccontato in varie occasioni come abbia smesso di far fotografie nel 1960, dopo un giro per le cattedrali francesi, fotografando come un pazzo. Al ritorno mi ero ritrovato con una serie di foto modestissime e non ricordavo che cosa avessi visto. Ho buttato via la macchina fotografica e nei miei viaggi successivi ho registrato solo mentalmente quello che vedevo. A futura memoria, più per gli altri che per me, comperavo ottime cartoline.

UNA VOLTA, AVEVO UNDICI ANNI, sono stato attirato da insoliti clamori sulla circonvallazione della città dove ero sfollato. A distanza ho visto: un camion aveva urtato un calesse guidato da un contadino con la moglie accanto, la donna era stata scaraventata a terra, le si era spaccata la testa e giaceva in mezzo a una distesa di sangue e sostanza cerebrale (nel mio ricordo ancora orripilato era come se avessero spiaccicato una torta di panna e fragole) mentre il marito la teneva stretta ululando di disperazione. Non mi ero avvicinato più di tanto, terrorizzato: non solo era la prima volta che vedevo un cervello spalmato sull’asfalto (e per fortuna è stata anche l’ultima) ma era la prima volta che mi trovavo di fronte alla Morte. E al Dolore, alla Disperazione. Cosa sarebbe accaduto se avessi avuto, come accade oggi a ogni ragazzino, il telefonino con telecamera incorporata? Forse avrei registrato, per mostrare agli amici che io c’ero, e poi avrei messo il mio capitale visivo su YouTube, per deliziare altri adepti della “schadenfreude”, ovvero della delizia che si prova per le disgrazie altrui. E poi chissà, continuando a registrare altre disgrazie, al male altrui sarei diventato indifferente. Invece ho conservato tutto nella mia memoria, e quella immagine, a settant’anni di distanza, continua a ossessionarmi e a educarmi, sì, a farmi partecipe non indifferente del dolore degli altri. Non so se i ragazzi di oggi avranno ancora queste possibilità di diventare adulti. Gli adulti, con gli occhi incollati al loro telefonino, sono perduti ormai per sempre.
Umberto Eco
L'Espresso 10 luglio 2012