Intervento del rappresentante della Congregazione
Italiana dei Cristiani Unitariani per l'Inaugurazione
del "COORDINAMENTO INTERDISCIPLINARE
COMUNICAZIONE"
Il programma di un moderno unitarianesimo cristiano Comprendere che Gesù, con la sua parola ed il suo esempio, ha proclamato non sé, ma ogni essere umano Figlio di Dio, creato nella dignità dall’amore, ma anche chiamato alla responsabilità della crescita. Ritrovare nella trascendenza non un’incolmabile distanza, ma l’alterità che alimenta tale crescita, attraverso l’estraneità dell’altro, che ci chiama ad un confronto, come attraverso l’aspirazione dell’oltre, che ci spinge alla ricerca ed al miglioramento. E riconoscere il mistero di tale trascendenza nella meraviglia dell’immanente che ci è attorno e ci è dentro, opera e prossimità di Dio, Spirito in cui siamo immersi e da cui siamo abitati. Questo è, in sintesi, il programma di un moderno unitarianesimo cristiano, che, nel suo essere “teologia” e “cristologia”, non può che essere “antropologia” ed “ecologia”. Perché, lì dove Padre, Figlio e Spirito Santo cessano di essere relazioni interne alla Divinità stessa, ossia descrizione di ciò che non può essere descritto e divisione di ciò che non può essere separato, essi ci forniscono la grammatica per delineare, piuttosto, i rapporti tra il Dio Unico, Uno ed Unità, con l’Uomo ed il Cosmo. Ecco che, allora, l’approccio multi–disciplinare proposto dal “Coordinamento interdisciplinare studi sulla comunicazione” assume un particolare interesse per l’unitarianesimo cristiano, chiamato a riscoprire la fondamentale multi–dimensionalità dell’essere umano.
L’uomo a due dimensioni C’era un vecchio libricino per ragazzi che parlava della vita in un mondo a due sole dimensioni. I piatti abitanti di Flatlandia (così si chiamava questo strano mondo) erano costretti a scavalcarsi ogni volta che si incontravano, perché non potevano passarsi accanto o girarsi attorno. Le case avevano una sola apertura, perché altrimenti sarebbero crollate. La natura aveva fatto almeno sì che uomini e donne avessero il volto orientato diversamente, altrimenti non si sarebbero mai potuti guardare negli occhi. Ma agli amici dello stesso sesso si era costretti a parlare alle spalle. Insomma, il più semplice dei mondi per la più difficile delle vite. Anche noi oggi viviamo appiattiti su due sole dimensioni: quella della “produzione” e quella del “consumo”. Ci diciamo: siamo persone semplici e vogliamo una vita semplice. Poesia? Cultura? Spiritualità? Roba complicata da lasciare agli intellettuali. Non ci rendiamo conto che rinunciare alla complessità dell’essere umano non significa rendere la vita più semplice, ma, come per gli abitanti di Flatlandia, più limitata, più povera e, quindi, più “difficile”. Il concorso degli interessi economici, purtroppo, spinge gli esseri umani verso questo appiattimento: - sulla dimensione della “produzione”, che pretende che ciascuno di noi anteponga la “missione della propria impresa” (della propria azienda, ma anche della famiglia ridotta a mera istituzione sociale e materiale o, più in generale, del proprio ruolo sociale riconosciuto) alla “impresa della propria missione” (quella, cioè, di arricchire ogni esperienza, ogni luogo ed ogni ruolo dell’autenticità della propria persona); - sulla dimensione del “consumo”, che ci porta a ricondurre ogni esperienza ad un “divertimento”, ossia ad un “guardare altrove”, una momentanea deviazione del sentiero, piuttosto che un passo lungo di esso, una fuga dalla propria persona, piuttosto che un mattone nella sua costruzione; e che ci spinge a ridurre ogni bene ad una “cosa”, veicolo di utilità economica e materiale, ma non più di storie e di valori, ed ogni emozione ad un desiderio, in cui bellezza e verità cessano di essere oggetti di una contemplazione, che è reciproco rispetto con l’osservatore, per farsi oggetti di proprietà di una reciproca schiavitù. Non c’è religione che non sia cosciente di tutto questo. E non c’è cristianesimo che non lo sia. Eppure si ha spesso l’impressione che le religioni rappresentino una fuga dal problema, piuttosto che una risposta ad esso.
Il ruolo delle Chiese In Italia la situazione è ancora più grave, perché la teologia cattolica sembra trovarsi a proprio agio in questa situazione: finché l’uomo è “produzione e consumo” non è di certo in grado di “salvarsi da solo”; la teologia cattolica trasforma tale condizione sociologica e psicologica in una incapacità ontologica; solo Cristo, come intermediario tra l’Umano ed il Divino, ma totalmente esterno all’essere umano, e la Chiesa che lo incarna e lo rappresenta possono colmare tale deficienza e condurre l’uomo alla salvezza. Così, il nemico contro cui la Chiesa dovrebbe combattere diviene la fonte della sua stessa legittimazione. Certamente l’essere umano appiattito sulle dimensioni della produzione e del consumo è in sé interdetto dalla pienezza della vita, ma il sentiero verso di essa può riaprirsi attraverso la riscoperta dell’autenticità e dei benefici dell’impegno spirituale. Certamente non l’uomo “da solo” perché chiuso in sé può salvarsi, ma l’uomo che si apre alla vita, alla sua meraviglia ed al suo mistero. Certamente non l’uomo “da solo” perché chiuso in sé può salvarsi, ma l’uomo tra gli uomini, che si apre all’altro come confronto, dialogo e comunione. Questo è, però, un cammino che si dispiega, anche senza intermediazioni, dinanzi ad ogni essere umano, in virtù del suo essere dentro la vita divina. Ed egli ha già in sé le energie per percorrerlo, in virtù della vita divina che è in lui. Non che le Chiese cessino di avere una loro utilità, come i detrattori della religiosità liberale sostengono. Esse mutano, però, il loro ruolo in luoghi di incontro della sapienza e dell’amore, attraverso il confronto con una tradizione, il dialogo con una comunità e la comunione di una devozione condivisa. Tuttavia, esse cedono lo scettro dell’autorità morale e spirituale alla coscienza, serbando per sé un’autorevolezza proporzionale alla capacità di porre al servizio di questa la propria storia, la propria coerenza, la propria organizzazione ed il proprio impegno.
Credenti liberali Ma una spiritualità ed una religiosità che si pongano al servizio della costruzione di una persona umana autonoma e matura è quanto di più lontano dall’ordinaria percezione della religione, associata piuttosto alla fede come assenso ad una serie di assunti indimostrabili ed all’obbedienza a dogmi e gerarchie. Gli unitariani si trovano, così, in particolare nell’Europa secolarizzata, a dover superare un pregiudizio generale sulle religioni. La pratica e la predicazione unitariane devono, quindi, farsi testimonianza della possibilità di essere “credenti” e “liberali” allo stesso tempo, dimostrare allo scetticismo dei più che questo non è un ossimoro, ma una coerente e matura via dello spirito. Certamente l’essere “credenti” ci spinge alla convinzione che l'essere umano non possa realizzare il proprio potenziale senza riconoscere il proprio debito di riconoscenza verso quello che la vita ci offre e senza riconoscere i limiti di ciò che noi possiamo sapere e fare della vita, ma ciò non comporta che vi sia un significato predeterminato, che possa essere o esserci imposto e che possa sottrarci la possibilità e la responsabilità di esercitare la nostra capacità di scegliere. Affermarlo e testimoniarlo con forza è ciò che ci rende “credenti” e “liberali” ad un tempo. L’assenso che diamo all’insieme di credenze, di miti e di simboli che vengono a costituire le specifiche “fedi” ha la funzione di dare forma alla pratica spirituale e religiosa e l’aver scelto Gesù, il suo messaggio ed il suo esempio, come faro della nostra pratica religiosa e spirituale è ciò che ci rende specificatamente “cristiani”. Ma la “fede” in sé non è tanto un “credere a” una verità esterna che si propone al nostro intelletto, ma piuttosto un “credere in” qualcuno o qualcosa, ovvero rendere partecipe la nostra volontà di ciò di cui riconosciamo interiormente il valore. Le cose “in” cui la fede crede, il valore di una vita autentica, l’aspirazione ad un mondo migliore o la testimonianza della meraviglia e del mistero del creato, non sono barattabili, né sacrificabili di fronte alla più immediata delle mete, alla più facile delle occasioni, alla più riduttiva delle spiegazioni; ma le cose “a” cui la fede crede, questa o quella descrizione del mondo e della vita, sono rivedibili e revisionabili alla luce delle nuove conoscenze e delle nuove esperienze. Anche l’esercizio dello “spirito critico” è testimonianza dello “spirito divino” che è in noi.
La vocazione universalista Il moderno unitarianesimo cristiano, pur rivendicando la sua eredità e la sua identità, presenta una forte vocazione “universalista”. Una religiosità liberale non può che aprirsi al dialogo tra le culture e le religioni e all’autonomia dei percorsi spirituali individuali. Questo richiede, tuttavia, un atteggiamento di assoluta serietà nei confronti dei testi sacri e delle tradizioni. Questa serietà ci richiede di non cercare nelle altre tradizioni solo il già pensato, il già conosciuto, il già vissuto, fino a ridurle ad argomento delle nostre affermazioni o a strumenti di legittimazione della nostra identità. Questa serietà ci richiede di fare tesoro delle lezioni forniteci dalle altre tradizioni senza cedere alla tentazione di acquisire elementi eterogenei al fine di aumentare l’appetibilità del nostro “marchio” all’interno del “mercato” delle religioni. Questa serietà ci richiede di vedere nelle tradizioni il valore di ciò che le accomuna come opportunità di comunione, ma anche il valore di ciò che le distingue come opportunità di crescita, in virtù delle sfide che esse pongono alla nostra comprensione. Ma la vocazione “universalista” è qualcosa di più dell’apertura al multiculturalismo. L’universalismo in un contesto cristiano ha significato affermare l’universalità della salvezza, ossia la possibilità offerta a chiunque di accedere alla salvezza, in qualunque tempo e qualunque luogo, qualsiasi sia la storia di vita o la natura personale. Ecco che, allora, un unitarianesimo cristiano che voglia assolvere in pieno alla propria vocazione universalista non può rinchiudersi nelle elite intellettuali, ma deve farsi “democratico” e “popolare”.
Una molteplicità di linguaggi Tutto questo richiede la capacità di elaborare il proprio messaggio in una molteplicità di linguaggi. Ecco che allora l’approccio multi-disciplinare proposto dal “Coordinamento interdisciplinare studi sulla comunicazione” acquista un valore anche in chiave comunicativa, come palestra di elaborazione di messaggi, linguaggi ed esperienze. Questo non potrà che contribuire a diffondere la proposta di una “religiosità liberale”, che confuti l’assioma che assimila religione ed oscurantismo o che, perlomeno, rappresenti l’eccezione alla regola. E non potrà che aiutare a tradurre in realtà l’aspirazione unitariana ed universalista ad una salvezza condivisa. Home page > Etno-antropologia e letteratura >
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