“Halloween, la Notte delle Streghe”
Dei “generi” si è detto tanto, e verrà detto altro ancora nei prossimi anni. Parole spesso improprie, buttate lì per un facile virtuosismo, da parte di chi non ha una conoscenza fattuale del soggetto preso in esame e che, perciò, offusca il suo giudizio con inutili sproloqui di partigianeria gratuita, capaci di risultare quanto mai risibili agli occhi di coloro i quali, magari dotati di minore cultura, si trovano ad essere più vicini, per un motivo o per un altro, a quella a suo modo complessa meccanica che è “il genere”. Quella polemica sbocciata intorno alla figura del terrorista de “Il Cavaliere Oscuro. Il Ritorno”, è esemplificativa di un dato stato di cose che si verifica specialmente in Europa e (possiamo dirlo) specialmente in Italia, dove il “genere” ci è sempre apparso come qualcosa di estraneo alla cultura nazionale (con le dovute eccezioni dei vari Leone e Bava). Ma in fondo queste sono solo chiacchiere introduttorie. Sono molto restio a voler iniziare un dibattito che certo non può essere ridotto a queste poche righe. Forse deve ancora uscire uno studio serio su quell’enigma che sono i “generi popolari”. Forse non uscirà mai. E, forse, è anche meglio così; del resto si sa che la morte dell’arte arriva quando una troppo solida sovrastruttura di studi si preoccupa di ammutolirla. Qui ci limitiamo a parlare di un film. Per la precisione di un film che si chiama “Halloween, la notte delle streghe”, che è del 1978, che è di John Carpenter, e che è (in ultima istanza) uno dei più celebri horror USA a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, primo capitolo di una saga che conta (purtroppo) altri sette film in bilico tra l’inutile e l’inguardabile più due remake che lasciano il tempo che trovano nonostante la buona volontà profusa. Prima di entrare nel merito voglio fare un piccola cronologia di eventi la quale, rapidamente, riesca a illustrare lo sfondo culturale su cui poggia le basi questo film. Partiamo dal 1968, da quando, cioè, un giovane idealista di nome George Romero scrive e dirige a basso costo una pellicola che, come un fulmine a ciel sereno, cambiò radicalmente un panorama cinematografico che sembrava dovesse andare in tutt’altra direzione. Stiamo parlando,ovviamente, de “La Notte dei Morti Viventi”. Molto è stato detto intorno al tema centrale di questa opera, con lo zombie come grande mito della modernità (leggi anche: il più moderno tra i miti) capace di rappresentare, di volta in volta, il conformismo, la malattia, la paura della guerra atomica, la cultura di massa e così via. Mi soffermerò più del dovuto su questo film poiché trovo che proprio da qui potremmo partire per arrivare poi a parlare di “Halloween”. La morte, tema centrale del lavoro di Romero, domina la scena, inibisce alla radice qualsiasi tentativo di analizzare il contenuto su qualsiasi base sociologica o morale. Ma (e qui arriviamo al dunque) la morte ha l’ultima parola sulla vita, su qualsiasi tentativo di esorcizzarla o di combatterla (razionalizzarla, potremmo dire, trasportando la vicenda su un piano filosofico). Ma la morte non è tragica qui, e non è nemmeno un naturale momento nell’esistenza di ognuno: è un virus. E, come tale, contagia senza via di scampo coloro che sembravano non dovessero esserne toccati. Chiaramente questa informazione subliminale che la pellicola ci dona non può che nascondere qualcos’altro, un malessere più profondo che, non potendo essere razionalizzato, farà presa sui giovani cineasti degli anni ’70, i quali, proprio sul modello do Romero, si metteranno per tutto il decennio appena iniziato e per quello immediatamente successivo, a realizzare i loro bravi lavori a basso costo. Mi limito a fare pochi nomi esplicativi in ordine cronologico: “Non Aprite Quella Porta” (Hooper, 1974), “Il Demone Sotto la Pelle” (Cronenberg, 1975; un film che, sotto molti punti di vista, meriterebbe un analisi a parte), “Dawn of the Dead” (Romero, 1978, seguito de “La notte dei Morti Viventi), “Halloween” (appunto); per poi passare ad un panorama ancora più ricco negli anni ’80 con “Venerdì 13” (Cunningham, 1980), “Nightmare” (Craven, 1984), “La Bambola Assassina” (Holland, 1988), per finire con “Hellraiser” (Barker, 1989) idealmente a chiusura di una fertile stagione. Bene. Ma qui si parla di un “quid” intimo, un “filo rosso”, capace di unire insieme pellicole così diverse (anche dal punto di vista qualitativo), togliendo il semplice fatto di essere tutte opere low-budget di esordienti. E qui arriviamo ad “Halloween”, che può essere considerato una involontaria summa di tutto ciò che si può dire su questo tipo di cinema horror (e non solo su questo tipo!). Prima di tutto “Halloween” è una storia di un assassino periodico. Mike Myers (questo il suo nome) pugnala e uccide, che è solo un bambino, la sorella maggiore durante la notte di Halloween. Internato in un manicomio criminale per quindici anni, torna nella sua cittadina natale da evaso (sempre durante la medesima notte) alla ricerca di nuove vittime. Le troverà in un gruppetto di amiche, anche loro adolescenti. Il fatto che abbia presentato al trama in modo così sbrigativo è tutt’altro che casuale: “Halloween” è, prima di tutto, un film che non ha bisogno di trama e che, anzi, proprio in questa sua apparente mancanza sprigiona tutta la sua potenza. Infatti, chi pensa ad un film su un serial killer, è lecito che si aspetti delle motivazioni ultime per cui le stragi avvengano; o, quantomeno, un profilo psicologico dell’individuo in questione . In “Halloween” questo non avviene. Avviene tutt’altro: avviene che abbiamo un dialogo tra lo psicanalista che lo aveva in cura al manicomio e una delle adolescenti (papabile vittima, interpretata da una allora esordiente Jamie Lee Curtis) in cui il primo asserisce:<<Per dieci anni ho provato a curarlo. Ho passato gli altri cinque a tenerlo sedato sperando non fuggisse mai>>, con conseguente riferimento a “occhi neri come pece, incapaci di emanare un qualsivoglia sentimento”. Chi è costui, dunque? Un essere animato ma che si comporta quasi come non lo fosse, come un oggetto meccanico non dotato di raziocinio proprio? E’ questo il massimo che Carpenter mi può dire su di lui? Risposta: si, è questo il massimo. Poiché, in ultima istanza, Mike Myers non è un assassino periodico. Non è neanche una persona, per quanto sia utile a questo punto precisarlo. Mike Myers è la rappresentazione tangibile del pensiero debole (e più in particolare, del nichilismo) che combatte (e trionfa) sul pensiero forte (lo psicanalista, ovvero la scienza). Se capiamo questo arriviamo a un punto di svolta non solo per comprendere il film ma (lo dirò, a rischio di parere esagerato) per comprendere il cinema horror tutto. Poiché questo è il genere per eccellenza (se non l’unico) in cui ciò avviene compiutamente, e porta nei suoi geni intimi questa caratteristica, innalzandola a “marchio di stile” capace di trascendere tutti gli altri (anche il semplice, e abbastanza soggettivo, fatto di “mettere paura”). Mi spiego meglio. Nel romanzo gotico la purissima forza fideistica e religiosa dell’eroina sconfiggeva il villain di turno. Allo stesso modo in “Dracula” il progresso scientifico (accompagnato, naturalmente, dalla fede in Dio) aveva la meglio sull’oscurantismo delle vecchie superstizioni popolari. Il così detto “pensiero forte” (le certezze sensibili e\o religiose) vincevano contro il terrore irrazionale che è proprio dell’esistenza, il quale poteva essere semplicemente “rispedito” ad un passato lontano quale artefatto di un epoca oscurantista oramai conclusasi. Qualcosa cambia con Lovercraft, con i suoi orrori provenienti da un passato remoto, che abitavano la terra prima dell’uomo e che, perciò, si ritrovano fuori da quei parametri di giudizio razionalizzante con cui l’umanità avrebbe potuto imprigionarli. Una paura più intima comincia ad affacciarsi nella mente dell’uomo comune (e a cosa serve la cultura così detta popolare, se non ad analizzare l’evoluzione della mentalità vigente nel corso del tempo?). Una paura che è allo stesso tempo fascino irresistibile. La paura\attrazione per il pensiero debole, il sospetto che, nonostante tutto, l’unica verità ultima a cui aggrapparsi non sia né quella della religione, né, tantomeno, quella della scienza empirica e razionalista. Il sospetto che sotto a tutto ciò ci sia un Nulla, un Nulla che è oscuro e insondabile quanto gli occhi di Myers. Ed è qui che Carpenter dimostra la sua indiscussa superiorità rispetto, per esempio, all’epopea cattolico-esoterica che è de “L’Esorcista” (il quale, in fondo, sottintende che è sufficiente avere la croce più grossa per risolvere tutti i problemi). Alla forma baroccheggiante di quest’ultimo, al suo tripudio sensazionalistico di effetti speciali Hollywoodiani , Carpenter contrappone la sua estetica, fredda come la lama di Mike che trafigge le sue vittime (gli spettatori), portandosi vicino addirittura alle vette Kubrichiane (parlo di “Shining”, naturalmente, pellicola che, nonostante le indubbie differenze, si ritrova affine a questa sotto molti punti di vista). Ci sono, ora, due espedienti tecnico-contenutistici da prendere in esame riguardo a questa pellicola: il finale e le riprese in soggettiva, entrambi necessarie per comprendere appieno per quello che sto dicendo. Mi ricordo che quando da bambino leggevo i libri della saga “Piccoli Brividi” (o vedevo la serie televisiva da essi tratti) rimanevo sempre perplesso nei riguardi dei finali che erano, nella stragrande maggioranza dei casi, quello che potremmo definire oggi “finali aperti”: una vicenda non si concludeva mai del tutto, l’orrore sprigionatosi in quelle pagine, nonostante apparentemente sconfitto, trovava il modo di ricomparire all’ultimo provocando un effetto di inquietante sorpresa. Questo tipo di conclusione è presente anche in “Halloween”, oltre che nella gran parte dei prodotti horror ”per adulti” (un esempio per tutti: il finale di “Rosemary’s Baby”). Ebbene, se intendiamo il genere horror moderno come la sconfitta del pensiero forte da parte del pensiero debole tutto ciò rimane pienamente giustificato: se l’unica certezza della vita è l’orrore e il Nulla, le forze “della luce” (che sono spesso più ottuse di quanto siano i vari “mostri” presentati!) non posso ottenere altro che una vittoria pindarica sui loro antagonisti. Si sancisce, perciò, che il nichilismo non può essere distrutto, può essere solo ricacciato indietro per un tempo molto limitato: tornerà sempre nelle maniere più inaspettate, pronto a rivendicare nei modi più terribili il suo ruolo di “guida” dello spirito umano. Ma, in fondo, siamo davvero certi che l’umanità non lo voglia accanto a se? Un secco no, pare essere la risposta dataci da Carpenter. Il cineasta utilizza per tutta la durata del film le inquadrature in soggettiva dagli occhi del killer proprio a significare ciò: lo spettatore ama Mike Myers, si identifica con lui in ultima istanza, poiché è portatore di quello che lui sente come una verità inconfutabile. Carpenter questo lo sa ed è pronto a esaudire i nostri desideri, attivando un processo psicologico non troppo diverso da quello che, anni prima, Hitchcock aveva attivato nei confronti di Norman Bates. Se è vero che è dalla commistione di orrore e amore che nasce il sublime, e se è vero che gli spettatori (di qualsiasi epoca) si sentono irresistibilmente attratti da ciò che nella vita quotidiana avrebbero stigmatizzato, allora il cinema horror tutto e questo film in particolare assolve alla sua funzione di specchio voyeuristico che, però, è anche brillante ritratto del clima culturale in cui ci muoviamo ogni giorno. Ora, qualsiasi sistema può naturalmente fallare, e intendere il genere horror come una sconfitta del pensiero forte da parte del pensiero debole potrebbe essere comunque un modo di generalizzare una materia che è più sfaccettata sotto tutti i punti di vita. Tuttavia penso pure che potrebbe essere un buon punto di partenza per un lettura nuova non solo di questo film, ma anche, per dire, degli zombie di Romero a cui accennavo prima (il virus della morte come il virus del nichilismo in propagazione?), così come per la famiglia cannibale di “Non Aprite quella Porta”, o per il pianto di Shelley Duvall di fronte alla furia omicida del marito. Venticinque anni sono passati, oramai, dalla prima apparizione sullo schermo della figura mascherata di Myers. Il passaggio di questo “mostro” della cinematografia contemporanea non passa inosservato neppure oggi: quella sua freddezza, quella sua mancanza di scrupoli, quella sua inquietante presenza soffia come una malata brezza nell’immaginario del ventunesimo secolo. Lo riconosciamo negli alienati adolescenti di “Elephant” di Gus Van Sant, in quell’inarrestabile malavitoso di “Non è un Paese per Vecchi” e anche (perché no?) negli scontri sia fisici che psicologici tra Batman e Joker ne “Il Cavaliere Oscuro”. Il grande impatto che tutti questi film hanno avuto e continuano ad avere non fa altro che portare alla luce la genialità dell’intuizione (forse anche involontaria) di Carpenter. E non è poco.
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