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I social network tirano fuori la parte più infantile di noi. E danno dipendenza, come le sigarette. La dura accusa del saggista americano Andrew Keen.

Altro che regno della libertà. Internet assomiglia sempre più a una specie di casa dello studente globale e abbacinante che ci incarcera in vita forzatamente pubblica. Colpa dei social media, che frantumano la nostra identità costringendoci a vivere continuamente fuori da noi stessi. E che mettendoci a nudo, sacrificano la nostra privacy alla tirannia utilitaria delle corporazioni digitali.

Almeno così la pensa Andrew Keen nel suo ultimo libro “Digital Vertigo. How Today’s Online Social Revolution Is Dividing, Diminishing, and Disorienting Us”. Ovvero come la rivoluzione in salsa social del Web che non risparmia nessuna attività, neppure quelle più tradizionalmente isolate e individualistiche, quail la lettura, ci sta traghettando in un’era di “ipervisibilità” e di ipertrofia dell’ego. Con pesanti conseguenze sociali e psicologiche.

Una tesi piuttosto forte che però, considerata la provenienza, non stupisce. Keen è un saggista e imprenditore della Rete di origine britannica che ama fare il bastian contrario. Nel 2007 destò scalpore il suo “Dilettanti.com”, un saggio-pamphlet in cui si scagliava contro il Web 2.0, la produzione amatoriale di contenuti e la loro condivisione gratuita. E il sottotitolo non lasciava spazio a compromessi: “Come la rivoluzione del Web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia”. Una critica a Internet che però oggi, riformulata nel nuovo libro appena uscito sul mercato internazionale (per l’Italia è in corso una trattativa con un editore), si avvicina alle preoccupazioni espresse da altri intellettuali (e anche da molti utenti). Non stiamo cioè cedendo troppo dei nostri dati e del nostro controllo sugli stessi alle grandi aziende della Rete? “L’Espresso” lo ha chiesto a Andrew Keen.

Perché secondo lei la condivisione on line è una trappola?

“Lo è su tre livelli. Il primo è che Facebook – ma anche Google – l’hanno trasformata in un prodotto da vendere agli inserzionisti. E i consumatori, che sono sempre più spinti a essere trasparenti, a rivelarsi, finiscono con l cedere informazioni e quindi potere alle aziende. Perché quelle stesse informazioni possono essere usate in tanti modi, anche per negare un lavoro o una copertura sanitaria. Il secondo livello è che anche i governi usano i social media per aggregare dati sui cittadini, e noi gli  abbiamo reso la vita facile. Pensiamo al film “Le vite degli altri”, agli sforzi che facevano i servizi segreti come la Stasi per carpire informazioni personali: ora gliele cediamo noi in blocco. Infine, e veniamo al terzo livello della trappola, i social network creano dipendenza, proprio come le bibite o le sigarette: una dipendenza alimentata dal nostro narcisismo, dalla vertigine di poter dire al mondo che cosa facciamo, pensiamo o preferiamo in ogni momento. Tirano cioè fuori la nostra parte più infantile, facendoci dimenticare che spesso siamo più interessanti quando stiamo zitti”.

Ma lei arriva addirittura a paragonare Mark Zuckerberg e gli altri imprenditori della Silicon Valley a Jeremy Bentham, il filosofo utilitarista che teorizzò il panopticon, la prigione-modello in cui un solo controllore riesce a sorvegliare tutti i detenuti. Davvero c’è un legame?

“Hanno la stessa concezione dell’essere umano, un’idea infantile degli uomini come aggregazione di desideri. Zuckerberg è così che ci vede. E ricordo che il panopticon non era nato solo per le carceri, ma anche per le scuole e gli ospedali. I problemi che la società digitale sta facendo affiorare oggi in modo plateale erano già emersi all’alba dell’età industriale. La storia si sta ripetendo, non so se con una accentuazione più tragica o farsesca”.

E cosa ci porta a restare sui social network, nonostante questi problemi?

È chiaro che nessuno è materialmente obbligato a rimanere su Facebook, ma di fatto starne fuori è quasi impossibile. Perché, in una economia della conoscenza sempre più individualizzata, siamo costretti continuamente a inventarci, a pubblicizzarci, a fare “personal branding”. Diciamo che solo persone molto ricche o molto povere possono permettersi di ignorare la piattaforma di Zuckerberg. Io ad ogni modo non sono iscritto, ma è una scelta che si accorda, per così dire, col mio brand”.

Ma qualcosa di buono in questa piattaforme ci sarà, non crede? Ad esempio come mezzo di diffusione di notizie o di organizzazione dei cittadini…

“Naturalmente hanno anche effetti positivi, specie a livello politico, specie in Paesi autoritari, pensiamo all’Egitto. E tuttavia per la loro stessa natura le mobilitazioni nate sui social media tendono a essere individualistiche, e non favoriscono la nascita di movimenti politici coesi. La Primavera araba, purtroppo, non si è trasformata in estate. E anche Occupy Wall Street non ha fatto un salto di qualità”-

Se dipendesse da lei, qual è la prima cosa che cambierebbe dei social network?

“Il modello di business. Farei pagare alle persone qualche dollaro al mese, ma garantirei loro la privacy. Credo che arriveranno presto delle piattaforme così fatte”.

Altrimenti?

“Il rischio è di finire come la rana nella pentola, che non si accorge di bollire se la temperatura dell’acqua cresce gradualmente. Non ci sarà un momento netto in cui la privacy finisce, ma assisteremo alla cessione progressiva di un valore importante, la cui riduzione non può che diminuirci come essere umani”.

C’è chi sostiene: “Io tanto non ho nulla da nascondere”.

“Una frase triste da dire. Forse si dice quando manca autoconsapevolezza”.

Va bene, ma se questa è l’analisi, cosa dovremmo fare? Educare le persone a salvaguardare la propria privacy? Intervenire a livello legislativo?

L’educazione è sempre una soluzione nebulosa. E poi in questo caso si tratterebbe di insegnare a essere umani: come si fa? Forse ha più senso cercare di umanizzare il mondo digitale. Per andare sul concreto, mi piace molto il lavoro che sta facendo la commissaria europea Viviane Reding sulla tutela della privacy e sulla protezione dei dati personali dei cittadini. Ma anche sul diritto all’oblio. Dobbiamo insegnare a Internet a dimenticare; e dobbiamo incoraggiare gli imprenditori a sviluppare tecnologie che ci diano il controllo dei nostri dati. Se è vero, come dice il personaggio di Sean Parker nel film “The Social Network”, che dopo le fattorie e le città noi vivremo in Internet, allora dobbiamo rendere la Rete un posto davvero abitabile”.

Quando uscì il suo libro “Dilettanti.com”, in cui si scagliava contro il mondo amatoriale e gratuito dei contenuti generati dagli utenti, era una voce isolata e anche molto biasimata. Ora è in buona compagnia: Nicholas Carr, Sherry Turkle, Jaron Lanier, Evgeny Morozov… La critica ai social media è diventata una moda?

“È vero, e mi lasci dire, è anche un po’ deludente. “Dilettanti.com” fu denigrato a tutto spiano, e la cosa mi divertì molto. Ora invece ovunque vada è un coro di applausi, perfino dagli amici del Partito pirata. Ironia della sorte, un mio articolo sulla Cnn relativo ai temi del libro ha raccoto 20 mila “Mi piace” su Facebook. Ma il punto è che tutte queste voci critiche provengono da persone immerse nel mondo tecnologico, e che non possono certo definirsi dei luddisti. Io stesso vivo in Silicon Valley e ho una trasmissione su “TechCrunch”, un sito di informazione hi-tech. Al contrario, non vedo in giro opere significativa da parte dei ‘social entusiasti’”.

Ha poi rivalutato i contenuti generati dagli utenti e la possibilità data a tutte le persone  di usare Internet per dire qualcosa?

“’Dilettanti.com’ era un libro che voleva far arrabbiare. Dopodiché riconosco che esiste il valore in questa forma di produzione dal basso. Anche se credo ancora nella necessità di avere contenuti curati da professionisti. Alla fine, le mie tesi hanno tenuto meglio di quelle di Chris Anderson (direttore del mensile americano “Wired” e autore di libri come “La coda lunga” e “Gratis”, ndr): la sua teoria della coda lunga, l’idea cioè che la Rete potesse moltiplicare i mercati e i prodotti culturali, dando spazio alle nicchie, si è rivelata essere soltanto un mito.

“L’Espresso” 12 luglio 2012

Carola Frediani

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