Gustavo Zagrebelsky

FUGA DALLA LIBERTA’
 
Dostoevskij , le seduzioni del grande inquisitore
  
 

 

A giudicare non solo dalla quantità, ma anche dalla qualità delle citazioni, delle sue interpretazioni letterarie, teatrali e cinematografiche, la forza attrattiva della Leggenda del Grande Inquisitore contenuta ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, a distanza ormai di quasi un secolo e mezzo, non è diminuita. Anzi, è crescente. E la ragione determinante è la forza con la quale essa solleva dal fondo questioni che sempre si rinnovano col volgere delle epoche e non si possono eludere. La libertà di fronte al bene e al male; libertà come benedizione o maledizione; il nichilismo e la violenza; la felicità, l'infelicità degli esseri umani, cioè la natura del loro essere; il significato della vita e del suo esito nella morte; il dolore e la redenzione dal dolore e dal peccato; la religione e l'ateismo; il Cristianesimo, nella versione cattolico-romana, e il socialismo come strumenti di controllo delle coscienze e di livellamento delle società. Nel luogo e nel tempo in cui fu scritta, la Russia di metà ottocento, radicaleggiante, sedotta dalle mode filo-occidentali e insofferente del dispotismo zarista e dell'ortodossia cristiana, la Leggenda sembrò una farneticazione letteraria. Nei decenni successivi, fu letta e condannata come espressione di un pensiero anacronistico, antidemocratico e antimoderno: come vagheggiamento di una restaurazione. Poi, ancora, alla luce degli sviluppi politici e sociali novecenteschi, fu giudicata una previsione e una condanna ante litteram di totalitarismi incipienti, cioè come un ammonimento profetico. Oggi, ora che ciò che allora si annunciava è davanti ai nostri occhi, pienamente dispiegato, la voce del Grande Inquisitore può essere ascoltata diversamente, al di sopra delle interpretazioni politiche, come una previsione, una profezia di sventura, se non come un annuncio apocalittico che riguarda tutti nel tempo presente.

Qui, per iniziare, assumiamo la Leggenda come un discorso generale sul governo. Da dove nasce l'obbedienza nel cuore degli esseri umani? È l'enigma degli enigmi politici. Il Grande Inquisitore una risposta l'ha e spaventosa, disumana o forse troppo umana: l'obbedienza nasce dall'odio della libertà. Ma quest'affermazione è generica. L'odio per la libertà è una caratteristica dei regimi politici fondati sulla ragion di Stato e sulla verità di Stato. Nella Leggenda troviamo qualcosa di molto più impressionante, cioè dell'odio per la libertà non dei governanti (cosa abbastanza naturale), ma dei governati (cosa assai meno ovvia). Ciò di cui qui si parla è la «servitù volontaria», non la servitù imposta con la coercizione delle volontà.

Per questo, ogni riflessione sul carattere politico del messaggio della Leggenda deve prendere le distanze da alcuni luoghi comuni.

"Ragion di Stato" e "ragion del volgo"

Il tempo in cui è situata l'azione narrata dalla Leggenda, il secolo XVI, è quello in cui prende forma lo "Stato moderno" e si svela l'esistenza di una doppia legge e di una doppia morale, una ordinaria per i comuni mortali e una straordinaria che riguarda i governanti, che curano i superiori interessi dello Stato: sopravvivenza, difesa, grandezza. Questi interessi stanno nel cuore del potere e devono sottrarsi alla vista del volgo, incapace di visioni autenticamente politiche. La loro cura è riservata agli uomini di Stato, il cui compito non è di onorare la ragione comune, ma di seguire la "ragion di Stato". Coloro che conoscono gli arcana del potere, cioè gli "iniziati" alle arti del governo, sono quindi autorizzati, se occorre, ad affrancarsi dalla moralità comune dell'uomo medio e a proclamare quello che, in termini moderni, si dice lo "stato d'eccezione".

La "ragion di Stato", dunque, è risorsa di chi sta al potere, al servizio di quell'entità metafisica che è lo Stato stesso, senza il quale gli esseri umani non possono vivere. Il popolo è legato alle leggi della sua morale, adatte a guidare i rapporti sociali. Ma c'è una sfera più alta, quella in cui opera il potere dello Stato. Qui vale una morale segreta, agli occhi della gente comune incomprensibile, anzi scandalosa. Il fine della morale comune è la società virtuosa. Il fine della morale politica è anch'esso la virtù, ma è la virtù dello Stato che esige, costi quel che costi, la rovina dei nemici.

Il Grande Inquisitore è anch'egli immerso nella distinzione tra coloro (i pochi eletti) che conoscono la realtà del potere e coloro (i molti) che l'ignorano. Ma, per legittimare il potere dei primi e la soggezione dei secondi, non si rivolge alla "ragion di Stato". Non c'è di mezzo, tra chi dispone del potere e chi al potere è sottoposto, "lo Stato", questa entità sovrumana che ha le sue leggi oggettive e le sue astratte e fredde istituzioni. Per l'Inquisitore tutto è molto umano. Egli ha dalla sua quella che si potrebbe dire la "ragion del volgo". Non deve salvaguardare lo Stato piegando i sudditi. Non è nemmeno il teorico dei poteri eccezionali. Si appella non alla natura dello Stato ma a quella degli uomini. Il suo è un governo benigno, non contro, ma per loro.

La "ragion di Stato" si risolve, in ultima istanza, nel governo della violenza orientata solo allo  scopo. La "ragion del volgo" si risolve invece non nella violenza, ma nella seduzione o, per usare l'espressione famosa di Tocqueville, in un «potere tutelare, assoluto, dettagliato, regolare, previdente e mite» che elimina la violenza dal proprio orizzonte. Il Grande Inquisitore è un rassicuratore, che vuole essere amico di tutti. Per questo, la sua morale è una sola, quella del volgo.

Tanto gli Inquisitori quanto i loro sudditi vi si devono piegare. La differenza è solo questa: i primi sono sofferenti e i secondi felici. Sofferenti perché consapevoli, felici perché ignari.

Gli Inquisitori sono, a loro modo, dei despoti, ma despoti-servitori, che stanno dalla parte di un'umanità innocente, che nulla conosce se non il proprio meschino benessere. Il Principe rinascimentale, che incarna la "ragion di Stato", vede dappertutto potenziali da "spegnere"; l'Inquisitore di Dostoevskij, incarna la "ragion del volgo" e vede dappertutto potenziali amici, da blandire e sedurre. Terrorizzare o lusingare, nell'esercizio del governo. Questa è una differenza fondamentale, da tenere presente leggendo la Leggenda.

"Ragion di fede" e "ragion del volgo". La Leggenda non parla di un inquisitore nel senso che la parola ha assunto nella storia dell'intolleranza cristiana verso i nemici della fede. Anche a questo riguardo si deve prendere la distanza. Naturalmente, non sarebbe stata scelta questa figura se non vi fossero somiglianze. Ma le analogie non devono nascondere le differenze.

La differenza essenziale è nel fine. Il fine, per tutte le inquisizioni al servizio del dogma, è la sconfitta dell'eresia. È un fine innanzitutto di natura spirituale. La Chiesa, come società sovrana, incaricata di mantenere intatta la parola rivelata da Dio, è responsabile di un compito primario: mantenere l'ortodossia. A ogni costo. Per l'Inquisizione si trattava di "spegnere" l'idea che semina dubbi, attentando all'unità della fede. I corpi che portano l'idea sono secondari: li si potrà sopprimere o risparmiare, a seconda che l'idea perversa sia riaffermata o ritrattata. Anzi, la maggior vittoria non è l'eliminazione fisica dell'eretico, ma l'abiura che riafferma la verità.

L'Inquisitore della Leggenda non ha a che fare con verità ed eresie. Egli ha a che fare con la pasta di cui è fatta l'umanità, della quale è al servizio. Il suo compito non è correggere, ma assecondare. La sua grande trovata sta in questo: il potere può essere assoluto se non si propone di cambiare, punire, frenare la natura umana, ma se la rispetta così com'è e la si lascia sfogare. È un potere, certamente; ma è un potere amico, dalla parte dell'uomo comune.

Per nulla paradossalmente, gli Inquisitori potevano considerarsi agenti della carità cristiana. Il loro compito era la salvezza delle anime dei devianti, qualunque cosa ciò comportasse: violenze, torture, condanne.

L'Inquisitore della nostra Leggenda, invece, rifugge da ciò. Egli conosce la natura umana e ne ha pietà. Con i suoi mezzi l'accompagna. Non vuole risvegliarla alla verità, ma addormentarla sì, prima che s'affacci alla conoscenza del bene e del male, cioè alla libertà. Ancora una volta la "ragione" che lo muove è la "ragion del volgo". L'Inquisitore di Dostoevskij viene prima degli Inquisitori della Santa Inquisizione: questi devono reprimere, quello si preoccupa di prevenire affinché reprimere non sia poi necessario.

Riguardo alle conclusioni possiamo dire così: la ragione dell'Inquisitore non è la ragion di Stato e neppure la ragione della fede. È la ragion del volgo. Si capisce allora perché i suoi argomenti ci appaiono familiari e perché a quel capitolo de I fratelli Karamazov ricorriamo spesso per riflettere sulla vita sociale e politica del tempo presente.
“la Repubblica” del 14 gennaio 2011

 

Antropologia del conformista che fugge dalla libertà

Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l'oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta - è “servitù volontaria”. Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d'essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s'impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l'opportunista, il gretto e il timoroso, materia per antropologi.

a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L'uomo-massa è l'espressione per indicare chi solo nel “far parte” trova la sua individualità e in tal modo la perde. L'ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi “a posto”, “accettato”.Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l'autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l'affettazione modaiola. La “tirannia della pubblica opinione” è stata denunciata, già a metà dell'Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell'immagine, è certo più pericolosa di allora. L'individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma.
Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della “polizia” senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d'essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?

b) L'opportunista è un carrierista, disposto a “mettersi al traino”. Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d'essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d'essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t'accorgi d'essere prigioniero d'una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo. Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?

c) L'uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente “la politica”. Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l'ipocrita superiorità: “certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione”, dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell'ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti. La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta “autenticità” personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d'esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell'immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della “uguaglianza solitaria”: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria. Su questa massa solitaria s'innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: “al di sopra di costoro s'innalza un potere immenso e tutelare, che s'incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E' assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti”. Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, “immenso e tutelare”, è un uomo libero o è un bambino fissato nell'età infantile?

d) La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra “costituzione psichica”, dice Freud: l'uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po' di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l'essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del “pane terreno”, simbolo della mercificazione dell'esistenza. Il “pane terreno” che l'uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: “il superfluo, cosa molto necessaria”. E' libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?

Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l'insidiano “liberamente”, dall'interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all'apparenza; l'opportunista, alla carriera; il gretto, all'egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d'omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà. La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l'amore per la diversità; l'opportunismo, con la legalità e l'uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.
 
 “la Repubblica” del 16 giugno 2011