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Mauro Barberis

Tutta un’altra storia. Equity, diritto e letteratura

Abstract

The reading The Concept of Equity. An Interdisciplinary Assesment (Universitätsverlag Winter, Heidelberg, 2007), edited by Daniela Carpi, is a good exemple of Law and litera- ture approach. In the three sections of this paper, however, three qualifications to such approach are produced: a) literary criticism and legal theory do remain different matters; b) legal theory, and legal history too, have to distinguish external from internal equity, which are branches of morals and law respectively; 3) a different story of equity is possi- ble: not good equity vs. bad law, but just the opposite.

Premessa

Una recente raccolta di saggi sull’equity nel diritto e nella letteratura inglese fornisce un esempio riuscito dell’approccio noto come Law and Literature, e caratterizzato dalla collaborazione fra critici letterari e giuristi.1 L’operazione merita peraltro tre puntualizzazioni, cui sono dedicate le tre sezioni di questa nota. Anzitutto, la critica letteraria resta estranea alla dottrina e alla teoria giuridica: anche se non rispetto alla storia del diritto. Poi, l’esempio dell’equity illustra un’importante distinzione fra equità esterna, alternativa al diritto, ed equità interna, funzionale alla sua applicazione: anche se, come mostra il caso inglese, l’equità esterna tende quasi inevitabilmente a diventa- re interna al diritto. Infine, proprio l’equity suggerisce una storia dell’equità diversa da quella che si racconta di solito: per dir così, non equità buona contro diritto cattivo, ma esattamente il contrario.

Diritto, letteratura e storia

Il volume The Concept of Equity. An Interdisciplinary Assesment, curato da Daniela Carpi, costituisce un esempio riuscito del filone di studi nato nelle Law Schools nordamericane oltre trent’anni fa, ma da tempo sbarcato sul vecchio continente2 noto come Diritto e letteratura (Law and Literature). Una ventina di interventi, di critici letterari e giuristi, specie comparatisti, parlano dell’equity: settore del diritto inglese sviluppatosi in alternativa al common law ed entrato in rotta di collisione con questo nel Seicento, poi confluito nello stesso common law a seguito dei Judicature Acts del 1873-75, ma tuttora influente nel diritto inglese sia per istituti come il trust sia per la dottrina dell’interpretazione detta equity of the statute. Accenneremo fra poco ad alcuni degli interventi qui pubblicati; prima occorre chiedersi il senso dell’operazione.
La corrente di studi su diritto e letteratura può farsi risalire sino al volume di James Boyd White The Legal Imagination (1973), nel quale si avanzava già la proposta, caratteristica dell’intero movimento, di introdurre corsi di critica letteraria nelle Law School nordamericane, sino ad allora caratterizzate da un feroce tecnicismo. La proposta si inseriva nel contesto dei vari filoni relativi a “Diritto e...” diritto ed economia, o analisi economica del diritto, diritto e società, o sociologia del diritto, diritto e scienza, diritto e razza, diritto e genere...  ma anche nel più generale riflusso della cultura nordamericana verso le Humanities continentali: riflusso che ha interessato gli studi filosofici più ancora degli studi giuridici. Si pensi solo al successo statunitense del post-strutturalismo francese, ma anche alla scelta di filosofi come Richard Rorty di trasferirsi in dipartimenti di Humanities.
È forse il caso di aggiungere che  da un punto di vista genericamente continentale, e specificamente italiano questi sviluppi rappresentano davvero un riflusso, nell’accezione svalutativa del termine: non perché in essi non vi sia nulla da imparare, ma perché approcci continentali reimportati sul continente  dopo la prima esportazione negli States  rischiano di produrre gli effetti curiosi delle doppie traduzioni. Per usare una vecchia battuta di Giovanni Tarello: come l’enunciato ‘Lo spirito è forte ma la carne è debole’, tradotto in un’altra lingua e poi ritradotto in italiano, rischia di diventare ‘I liquori sono buoni ma la carne è fetente’, così motivi culturali considerati regressivi sul Continente, almeno a partire dall’illuminismo, rischiano di tornarci indietro, dopo il lavacro statunitense, con un’aureola di (post)modernità.
Nella cultura giuridica italiana, in particolare, c’è sempre stata una tale abbondanza di (cattiva) letteratura non solo nelle materie “culturali”, come diritto romano, filosofia e storia del diritto, ma anche in quelle di diritto positivo, come diritto civile, penale, processuale...  da far paventare l’arrivo di nuova letteratura: anche buona. Al di là dei pregiudizi, in effetti, l’agenda disciplinare degli studi su diritto e letteratura non è rassicurante: in entrambe le varianti nelle quali questi studi si presentano, ossia “diritto nella letteratura” (law in literature) e “diritto come letteratura” (law as literature). Nella variante “diritto nella letteratura”, meno ambiziosa teoricamente e alla quale appartengono gran parte dei contributi al volume qui annotato, ci si accontenta di riflettere su tematiche giuridiche ricorrenti in narratori grandi e piccoli: da Omero a Franz Kafka.
Nella variante “diritto come letteratura”, invece, le ambizioni teoriche sono più vaste, ma anche più equivoche. Naturalmente, anche il diritto, come qualsiasi settore della cultura umana che produca testi  dai trattati filosofici agli elenchi del telefono  è letteratura: ma letteratura specifica, con regole sue proprie. Un approfondimento delle regole letterarie di “generi” giuridici come legge, codice, sentenza, nota a sentenza, saggio dottrinale o teorico, contribuirebbe certo all’autocoscienza dei giuristi: anche dei teorici del diritto detti analitici, i quali spesso dimenticano la natura letteraria, e quindi il requisito della leggibilità, dei propri testi. Sinora, peraltro, questa’autocoscienza letteraria ha prodotto soprattutto metafore di dubbia utilità euristica: come quella della chain novel applicata da Ronald Dworkin alla giurisprudenza di common law.
Un discorso più articolato dovrebbe però farsi per un genere letterario particolare: la storiografia, e in particolare la storia del diritto. Mentre gli elementi narrativo e interpretativo, o la tecnica dello storytelling  che costituisce uno degli apporti specifici degli studi letterari al diritto e più in generale all’etica – restano discutibili nella loro natura e nella loro portata, non vi è dubbio che essi siano immediatamente rilevanti per la storiografia, anche giuridica: gli storici narrano pur sempre storie, e a loro una problematizzazione delle regole del loro genere letterario non potrebbe che giovare. Lo stesso potrebbe dirsi, naturalmente, per la storia dell’equity, e più in generale dell’equità che è oggetto di questa nota; dell’equità, in particolare, è possibile raccontare una contro-storia, come quella che si abbozza qui di seguito.

Equity ed equità

Se la storia dell’equity ha un senso  nella storia del diritto inglese e, più in generale, nella storia del diritto europeo od occidentale  potrebbe essere questo: mostrare paradigmaticamente ascesa, trionfo e caduta di una forma di diritto alternativa, rispetto al tipo impostosi in Europa e in Occidente. Si tratta di un diritto talmente altro, almeno in origine, che si potrebbe esitare a chiamarlo diritto, nel senso stretto occidentale; verrebbe voglia di assimilarlo a forme di diritto in senso lato, come la giustizia del cadì di Max Weber, o il pre-diritto di Louis Gernet, o le varie forme di regolazione sociale  non giuri- dico-professionale ma politica oppure religioso-tradizionale  di cui parlano comparatisti come Pier Giuseppe Monasteri. Prima di dirne di più, peraltro, occorre aggiungere qualcosa sui rapporti fra equity ed equità, e su due sensi molto diversi di ‘equità’.
Benché abbia finito per indicare una parte del common law e del diritto inglese, ‘equity’ appartiene a una famiglia di vocaboli – oggetto nel volume qui annotato del bel contributo di Francesca Fiorentini e Mauro Bussani, comprendente il greco ‘epieikeia’, i latini ‘aequitas’ e ‘clementia’, l’italiano ‘equità’ e lo stesso inglese ‘fairness’  i quali indicano fenomeni diversissimi, ma complessivamente raggruppabili attorno a due poli. Il primo polo, che propongo di chiamare equità esterna, è una regolamentazione della condotta alternativa al diritto in senso stretto: niente regole fisse, scarsa separazione dalla morale, poche formalità, nessuna specializzazione di un ceto giuridico. I problemi giuridici, qui, sono risolti dal re-filosofo, da un vecchio saggio, oppure dal cadì, senza leggi né procedure né formalità: sulla base della sua sola coscienza, o del suo solo senso di giustizia.
Il secondo polo, che propongo di chiamare equità interna, è una regolamentazione della condotta non alternativa ma complementare al diritto in senso stretto, che anzi presuppone: un’applicazione del ius strictum che tiene conto delle particolarità del caso di specie e che solo in casi eccezionali  nei quali il summum ius equivarrebbe a summa iniuria  può giungere alla disapplicazione del diritto e a un giudizio di equità esterna. Orbene, le vicende dell’equity inglese sembrano tracciare proprio questa parabola: nata come equità puramente esterna, alternativa al common law e affidata alla sola coscienza del Cancelliere, l’equity entra in conflitto con lo stesso common law, consegue una vittoria di Pirro con la decisione di Giacomo I del 1616 ma, a seguito della Glorious Revolution e della rivincita dei common lawyers finisce per esserne assorbita con i Judicature Acts del 1873-75.
Com’è noto, l’equity nasce dagli appelli alla coscienza del re – il cui “custode” era il Cancelliere, spesso un ecclesiastico  determinati dal formalismo delle forms of action del common law e motivati da ragioni di giustizia materiale: appelli che determinano il formarsi di una giurisdizione autonoma nella Court of Chancery, destinata a confliggere con lo stesso common law, percepito in Inghilterra come ius strictum e comunque come diritto per antonomasia. Sul conflitto esploso nel Seicento fra equity e common law  come aspetto del più generale conflitto fra l’assolutismo di tipo continentale della dinastia Stuart e le ragioni filoparlamentari dei common lawyers sono particolarmente istruttivi testi letterari come Il mercante di Venezia di William Shakespeare, finemente analizzato nel contributo di Giuseppina Restivo.
La vittoria del Parlamento e delle ragioni del common law nella Glorious Revolution del 1688 segnano il declino della giurisdizione di equity, ma non della stessa equity: alcuni istituti della quale, come il trust, restano essenziali al diritto inglese. La fine dell’equity come giurisdizione a se stante  benché non degli istituti giuridici pure indicati con questo nome  è segnata dai Judi- cature Acts del 1873-75, che eliminano le forms of action e riorganizzano le corti inglesi. Oggi l’equity non è altro che una parte del common law, applicata dalle stesse corti che applicano il resto; l’equità esterna, cioè, si è convertita in equità interna: conversione ben esemplificata dall’uso del vocabolo in locuzioni come ‘equity of the statute’, a indicare un tipo di attribuzione del significato meno letterale e formalistico di quello che caratterizza, da sempre, la statutory interpretation.
Se si volesse trarre una morale da questa favola, potrebbe forse essere la seguente. In Occidente, istituti più morali o politici che giuridici, come l’equità esterna, originariamente lasciati alla discrezionalità di qualche autorità e rivolti alla realizzazione della giustizia materiale, sono destinati a entrare in conflitto con la forma paradigmatica del diritto occidentale: il diritto formale-razionale à la Weber. Per sopravvivere alle accuse di arbitrarietà che questo conflitto inevitabilmente genera, istituti come l’equity comunque mai del tutto autonomi dal ius strictum, se è vero che, come afferma Frederick Mait- land, l’equity ha sempre presupposto il common law tendono a mimare il diritto in senso stretto: sicché il loro destino finisce per essere il riassorbimento nel ius strictum, cui al massimo diventano complementari, ausiliari e ancillari.

Una contro-storia dell’equità

Se la schematizzazione della parabola dell’equity appena fornita è plausibile, allora permette di criticare la concezione tradizionale, giusnaturalistica, dell’equità: l’idea che, per dir così, nella storia dell’etica occidentale l’equità giochi sempre la parte del buono, e il diritto quella del cattivo. Si tratta di un’idea radicata in particolare nelle versioni giusnaturalistiche della storia del diritto occidentale: storia che comincia dal rifiuto platonico della legge uguale per tutti, come tiranno ostinato e ignorante, passando per la dottrina aristotelica della fronesis e della epieikeia come giustizia del caso concreto, proseguendo con l’aequitas romana e poi canonica, sino ad arrivare scavalcando la positivizzazione del diritto realizzatasi in forme diverse in Inghilterra e sul continente alle odierne riproposizioni del particolarismo etico.
In queste narrazioni nelle quali l’equità segue lo sviluppo del ius come una sorta di ombra, di doppio o di angelo custode il diritto gioca quasi sempre il ruolo del cattivo, l’equità quella del buono; lo rivelano già i loro generi, rispettivamente maschile e femminile, come quelli di Antigone e di Creonte. Nella letteratura, in effetti, l’equità tende a rappresentare il naturale senso di giustizia, la voce della coscienza o del cuore, il diritto, invece, la fredda ragione: e neppure la ragione naturale di Thomas Hobbes, ma la ragione artificiale di Edward Coke, che richiede di compulsare montagne di tomi polverosi. In origine erano la giustizia, l’equità, le voci della coscienza e del cuore; poi il freddo diritto avrebbe imprigionato tutto questo nelle sue formalità: anche se qua e là, dove la crosta della legalità si rompe, l’equità tornerebbe alla luce, fluendo dagli interstizi.
Orbene, la parabola dell’equity consente di raccontare tutta un’altra storia: una contro-storia dell’equità. Se la storia del diritto occidentale è storia del costituzionalismo del governo delle leggi che progressivamente sostituisce il governo degli uomini allora ci si può chiedere: da che parte sta, l’equità? Dalla parte del governo delle leggi o di quello degli uomini? La risposta lascia pochi dubbi. Già l’epieikeia aristotelica è solo quel che resta del re filosofo platonico; la clementia imperiale e poi quella canonica giustificano le violazioni delle garanzie del diritto scritto, non certo a favore dei sudditi o dei fedeli, ma del dispotismo imperiale ed ecclesiastico: e la stessa equity, difesa dagli Stuart contro common lawyers à la Coke, rientra perfettamente in questa (contro)storia. L’equità è uno dei più riusciti pretesti dell’arbitraire, come li ha chiamati Benjamin Constant.

ETICA & POLITICA  x , 2008

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