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Non capisco però intervengo

Effetti collaterali, e perversi,

della cosiddetta democrazia:

il diritto di parola scambiato

per il diritto all’incompetenza





Gli studiosi dei processi di formazione la chiamano “incompetenza inconsapevole”. È il gradino più basso nella scala dell’apprendimento. Più che un gradino, anzi, è il pianerottolo che sta in fondo. La combinazione peggiore tra quello che (non) si sa e quello che si crede di sapere. Lo stato di beata ignoranza di chi è talmente impreparato da non rendersi nemmeno conto di esserlo: gli esperti dibattono lungamente sui dettagli, fino a esagerare in senso opposto e a rimanere intrappolati nei labirinti delle più sofisticate sottigliezze; lui, il nostro lieto somarello, trincia giudizi a raffica, senza mai domandarsi se è effettivamente in grado di farlo.

In un altro tipo di società, capace di non confondere l’uguaglianza ai fini elettorali con un’uguaglianza altrettanto indiscriminata nell’ambito del dibattito politico e culturale, la questione non si porrebbe. L’ignorante presuntuoso sarebbe nulla di più di un personaggio folcloristico. Una macchietta – fastidiosa per chi la incontra, ma irrilevante sul piano sociale – come ce ne sono sempre state: il tipo che pontifica al bar o in ufficio, fin tanto che qualcuno più preparato di lui non si prende la briga di rimetterlo a posto sbugiardandolo, con la generale approvazione dei presenti, e costringendolo a prendere atto pubblicamente che i suoi non sono affatto veri e propri giudizi ma semplici impressioni ammantate di sicumera. Chiacchiere presuntuose che poggiano, si fa per dire, su premesse puramente emotive. Simpatie e antipatie travestite da concetti e da ragionamenti. Pregiudizi talmente sedimentati da diventare un ammasso cristallizzato di materiali di scarto. 

Una sorta di discarica in cui si trova di tutto, e in cui tutto c’è arrivato chissà come, che viene scambiata per un tempio della conoscenza, nel quale rifornirsi di quello che serve per dire la propria su qualsiasi cosa. Per giudicare qualsiasi cosa. Dal calcio all’economia. Dalle canzonette di Sanremo alla politica internazionale. Dai cascami della comunicazione di massa ai massimi sistemi della filosofia, della scienza e della religione. 

Le illusioni di Internet

La Rete è aperta a tutti, e questo è il suo pregio. La Rete è aperta a tutti e questo, se non si è in grado di gerarchizzare i diversi apporti e di distinguere tra le discussioni superficiali e le riflessioni approfondite, è il suo vizio. E il suo pericolo. Internet, infatti, dà a qualunque pagina un aspetto fondamentalmente simile, creando l’illusione che ciascuna di esse abbia la stessa dignità e la stessa funzione. E che, pertanto, chiunque possa trasformarsi all’istante in un operatore culturale e mediatico. 

Mentre in passato la pubblicazione di un testo, all’interno della stampa periodica o dell’editoria libraria, presupponeva comunque un qualche genere di selezione, per quanto opinabile, oggi questo filtro preventivo è venuto meno. Non soltanto di fatto, ma anche in teoria. O meglio, nel comune sentire di una parte sempre più vasta della popolazione. Una volta, o bene o male, l’aspirazione a pubblicare veniva ponderata dal diretto interessato con un minimo di cautela. E laddove non ci fosse stata questa sana, spontanea, doverosa autovalutazione, avrebbero provveduto i responsabili della testata giornalistica o della casa editrice. Quando si leggeva l’avvertenza che i materiali non richiesti, e non ritenuti idonei, sarebbero stati “cestinati”, l’espressione andava intesa in senso letterale. L’incaricato cominciava a leggere e, di solito nel giro delle prime cinque o dieci righe, capiva subito che aria tirava. Dopo di che, nella stragrande maggioranza dei casi, faceva fare allo scritto la fine che esso meritava: giù nel cestino – e speriamo che quello sciagurato dell’autore non ci riprovi.

Lo stesso discorso, mutatis mutandis, valeva ovviamente per i convegni culturali e, a maggior ragione, per i consessi accademici. Non è che si potesse intervenire solo perché se ne aveva voglia e si riteneva che quel desiderio equivalesse a un diritto assoluto. L’accesso era regolamentato. O almeno, se non altro, subordinato a una valutazione preliminare delle conoscenze in quel determinato campo. L’applicazione pratica poteva essere discutibile e persino iniqua, ma in se stesso il criterio restava, e resta, ineccepibile. 

Se l’oggetto del confronto è la Beat Generation, aver letto “Sulla strada” di Kerouac non è ancora abbastanza per prendere la parola ed esporre il proprio punto di vista. Amare, od odiare, i lunghi viaggi in autostop lo è ancora meno. Sarà spiacevole a dirsi, in quest’epoca di dilagante e ingannevole egualitarismo, ma la cruda e ineludibile realtà è che l’espressione di un parere, tanto più in pubblico, è comunque il punto di arrivo di un percorso che deve essere cominciato molto tempo prima. La dimensione pubblica esige un prologo assolutamente privato. In una parola, lo studio. Lungo, insistito, e almeno a tratti faticoso. Come per qualsiasi atleta di qualsiasi disciplina: prima di scendere in campo bisogna essersi allenati. E migliorati. Se la gente salisse su un ring con la stessa disinvoltura con cui interviene su Internet, o in una trasmissione radiotelevisiva, la sua sorte sarebbe segnata. Ne prenderebbe un sacco e una sporta. Con l’unico vantaggio, magari, di avere il tempo di riconsiderare la propria folle avventatezza, mentre giace in un letto ad aspettare di riprendersi, malconcia com’è.

 Tutti uguali, oh yes!

L’equivoco, come accennavamo all’inizio, risiede in un’idea distorta di democrazia. Quando l’articolo 21 della Costituzione afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, e subito dopo aggiunge che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, dovrebbe essere chiaro che si tratta di un’affermazione di principio, che va contemperata dalla consapevolezza individuale e collettiva di ciò che si deve intendere per “pensiero”. In questo come in tanti altri ambiti, del resto, bisognerebbe tenere sempre presente che il testo elaborato dall’assemblea costituente risale a oltre sessant’anni fa e si iscrive, perciò, in un contesto profondamente diverso da quello attuale. Sul piano scolastico, ad esempio, era semplicemente impensabile che gli studenti, o presunti tali, si ponessero sul medesimo piano dei loro insegnanti, o addirittura in antitesi. La conseguenza negativa poteva essere un eccesso di disciplina e di rigidità, che sfociava in un apprendimento passivo e acritico, ma quella positiva era abituare tutti a farsi carico della propria preparazione culturale, se volevano guadagnarsi il diritto a mettere in discussione le tesi altrui.

Il Sessantotto ha fatto benissimo ad attaccare il nozionismo e l’asservimento dell’istruzione alle esigenze del “sistema”, ma ha sbagliato completamente nell’identificare l’alternativa in una presunta autosufficienza culturale, garantita per diritto di nascita, dei singoli e delle masse. L’errore, fatale, è stato sovrapporre due piani che vanno mantenuti distinti: quello esistenziale, al cui interno si possono fare i conti solo con se stessi, e quello della conoscenza, in cui non ci si può sottrarre a una (lunga) fase di apprendimento come prologo indispensabile a qualsiasi scelta degna di tal nome. 

Qui in Occidente, per fortuna, non siamo arrivati ai deliri della “rivoluzione culturale” voluta da Mao nel presupposto, aberrante, che l’eredità storica fosse un condizionamento perverso da eliminare in toto. Questo affrancamento puerile e sommario dal passato – dalla “autorevolezza” del passato – qui da noi non è esploso in una violenza iconoclasta e non si è tradotto nella distruzione sistematica delle opere d’arte e delle altre vestigia lasciate dalle generazioni precedenti. I suoi effetti si sono prodotti in maniera più strisciante, ma ci sono stati ugualmente. L’idea che si è affermata, e che si è radicata anche in molti di quelli che non hanno avuto nulla a che fare con la sinistra più o meno estrema, e che magari si ritengono in totale disaccordo con essa, è che non sussiste nessun obbligo di preparazione specifica, per dare giudizi su qualsivoglia aspetto della realtà. 

A me mi piace il Grande Fratello. Embé? A me mi piace Berlusconi. Embé? A me mi piace Napolitano. Embé? A me mi piace quello che mi piace, per quanto tempo mi pare e non devo neanche stare a spiegarti il perché.

Federico Zamboni

il Ribelle 03/10/2010

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