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LEX MERCATORIA

di GUGLIELMO PIOMBINI


La più evidente confutazione della tesi secondo cui il diritto necessita di uno Stato, o comunque di un’autorità centralizzata, è rappresentata dallo sviluppo in età medievale della lex mercatoria, il diritto che i mercanti crearono, diffusero e applicarono superando i confini politici, fuori dall’influenza statale. Dopo la caduta dell’Impero romano il commercio si era ridotto drasticamente, fin quasi a scomparire, ma lentamente si erano formati mercati locali, tra di loro separati da barriere geografiche, linguistiche, culturali, normative, che rendevano difficile la loro integrazione. Per rimediare a queste difficoltà comparvero un gran numero di intermediari, il cui compito era quello di ridurre i costi di transazione migliorando i trasporti, approfondendo la conoscenza di lingue e usanze straniere e sviluppando norme commerciali tendenzialmente uniformi. In questo modo alla fine dell’undicesimo secolo si era già sviluppata una lex mercatoria che governava virtualmente ogni aspetto del commercio nell’intera Europa, e spesso anche fuori dai confini dell’Europa. Col tempo, mediante continue correzioni spontanee provenienti dal basso, il diritto commerciale divenne sempre più uniforme, preciso, obiettivo e imparziale. I mercanti, spostandosi da un posto all’altro, trasportavano con loro anche le pratiche commerciali del loro luogo d’origine; quando queste si scoprivano uguali a quelle del luogo di destinazione, entravano a far parte della legge mercantile internazionale; in caso di contrasto erano invece le consuetudini più efficienti nel facilitare gli scambi che finivano col prevalere, attraverso una sorta di selezione naturale.[1]


Il carattere obiettivo e imparziale del diritto mercantile discendeva dal principio di reciprocità su cui si basano tutti gli scambi. Poiché i mercanti cambiavano spesso di ruolo (da venditori a compratori a mediatori), solo un diritto imparziale poteva dare loro la sicurezza di partecipare in ogni caso ai mutui benefici generati dagli scambi. Inoltre, proprio perché non era progettato da alcun individuo o gruppo particolare, il diritto dei mercanti era quanto di più lontano possibile potesse esistere da un ‘diritto corporativo’ o da un ‘diritto di classe’, mirante a favorire gli interessi di un ceto sociale ai danni degli altri. Al contrario, non vi furono mai leggi tanto esigenti e severe con i mercanti come la lex mercatoria medievale. Infatti, per favorire l’interesse obiettivo e generale del commercio, bisognava garantire sopra ogni cosa l’affidabilità e la fiducia negli affari. Per tale motivo il ius mercatorum esercitava il più spietato rigore nei confronti del mercante quando cadeva in stato d’insolvenza. La grave repressione penale della bancarotta e le infamanti conseguenze personali del fallimento – spiega Francesco Galgano – testimoniano fino a quale prezzo la classe mercantile volesse acquistare credito e godere della fiducia dei mercati.[2]


Il diritto commerciale non veniva amministrato nei tribunali reali (in Inghilterra ad esempio le corti reali di giustizia iniziarono a farsi carico dell’applicazione dei contratti commerciali solo nel diciottesimo secolo[3]), ma in tribunali privati composti dai mercanti stessi. Pur non facendo uso della coercizione governativa, le decisioni dei tribunali mercantili venivano generalmente rispettate anche dai non mercanti e dai perdenti. Infatti, il non mercante o lo straniero che si fosse rifiutato di sottoporsi alla giurisdizione mercantile perdeva, per il futuro, il diritto di invocare a proprio favore il ius mercatorum, e in alcune città poteva subire l’interdizione da qualsiasi commercio con i membri della corporazione dei mercanti.[4] I mercanti invece che rifiutavano di sottoporsi a giudizio o a conformarsi alla sentenza non finivano in galera, ma subivano una sanzione spesso ben più temuta: il boicottaggio e l’ostracismo dei colleghi. Nessun mercante avrebbe infatti più commerciato con l’inaffidabile trasgressore. La perdita della propria reputazione, in mercati che si basavano in gran parte sulla fiducia e non sul ricorso alla forza, equivaleva di fatto alla cessazione dell’attività professionale.[5]

A dispetto dell’idea moderna secondo cui la giustizia rappresenterebbe un ‘bene pubblico’ che solo lo Stato può fornire, gli arbitrati volontari dei tribunali mercantili presentavano vantaggi enormi per il commercio. Difficilmente il sistema internazionale degli scambi si sarebbe sviluppato, dovendo contare solo sulla giustizia lenta e macchinosa delle corti reali. In primo luogo, perché queste ultime applicavano un diritto diverso da quello commerciale, e non erano in grado di seguirne i rapidi mutamenti: ad esempio, non ritenevano vincolanti i contratti conclusi all’estero o quelli che prevedevano interessi ‘usurari’, né attribuivano valore di prova ai libri contabili. Solo i mercanti conoscevano questi complessi aspetti tecnici del commercio. In secondo luogo, per i mercanti la rapidità del giudizio era fondamentale, e perciò le formalità procedurali e probatorie erano ridotte all’essenziale: gli appelli contro la sentenza non erano ammessi per non allungare i tempi; le lunghe testimonianze sotto giuramento erano spesso evitate; la forma notarile degli atti non era richiesta; per il passaggio della proprietà bastava il consenso e non era necessaria la consegna materiale del bene; i debiti potevano passare da una persona ad un’altra mediante una semplice dichiarazione scritta liberamente trasferibile.[6]


Per mezzo di questi innovativi strumenti obbligatori e creditizi i mercanti medievali superarono le difficoltà derivanti dall’esigenza di spostare comodamente e senza correre rischi grosse somme di denaro. In età medievale esistevano infatti molte monete auree: nel 1252 Genova cominciò a battere una moneta d’oro a 24 carati, chiamata Genovino, e solo qualche mese dopo i fiorentini emisero il proprio fiorino d’oro; Perugia e Milano le seguirono poco, mentre Lucca si adeguò nel 1273; nel 1284 comparve il ducato veneziano, che servì come standard di valore in tutta l’Europa e conservò il suo contenuto d’oro fino alla caduta della Repubblica di Venezia nelle mani di Napoleone nel 1797. Questo ritorno dell’oro in grande stile fu il simbolo più spettacolare delle acquisizioni economiche accumulate dal mondo cattolico nei due o tre secoli precedenti, e un simbolo tangibile dell’incipiente superiorità dell’Occidente sull’Oriente bizantino e islamico. Furono le esigenze dettate dal commercio, e non le ragioni politiche, a spiegare il fatto che i primi passi verso la coniazione di monete d’oro nel Medioevo ebbero luogo in centri economici e finanziari come Genova e Firenze, e non nelle capitali degli Stati nazionali come Londra, Parigi, o Roma.[7] Questo sviluppo rappresenta una conferma storica delle teorie degli economisti austriaci, secondo cui il mercato tende a produrre spontaneamente una moneta-merce che funge da standard o unità di misura universale degli scambi.

In pratica quindi nel Medioevo era come se vi fosse una sola moneta, dato che erano tutte fatte dello stesso materiale, e proprio per questo i rapporti di cambio tra le diverse monete erano fissi. L’ingegnosa lettera di cambio ideata dai mercanti italiani permetteva di depositare presso un banchiere una certa quantità di oro ricevendo in cambio un titolo di credito, che conteneva un ordine di pagamento. In questo modo la carta iniziò a sostituire nella circolazione monetaria l’oro, che però continuava a essere la vera moneta, di cui le banconote erano solo una “rappresentazione”. In età moderna invece la cartamoneta cessò progressivamente di rappresentare una reale ricchezza sottostante, fino a sganciarsi completamente nel XX secolo, tanto che si può parlare di una generale “tragedia della rappresentanza” che ha caratterizzato dopo il Medioevo tanto i sistemi monetari che quelli politici (a differenza infatti che nei corpi rappresentativi medievali, composti da veri rappresentanti nel senso privatistico del termine, cioè effettivi portaparola di una volontà altrui, dopo la Rivoluzione francese i “rappresentanti” eletti non saranno più veramente tali, potendo agire senza alcun vincolo di mandato).[8]


Agli inizi del tredicesimo secolo il diritto mercantile occidentale aveva acquisito il carattere di un sistema completo di principi, concetti, regole e procedure, la maggior parte dei quali fa parte degli elementi strutturali del diritto commerciale in vigore oggi.[9] Nessun legislatore avrebbe potuto creare un corpo di norme così flessibile, capace di sopravvivere per tanti secoli. Ancora una volta, la storia dimostra che tutte le istituzioni giuridiche ed economiche del capitalismo non sono una creazione del potere statale, né sono sostenute da questo. Al contrario, sono nate e si sono sviluppate fuori dallo Stato, e malgrado tutti gli ostacoli frapposti dal potere politico.


[1] Bruce L. Benson, The Enterprise of Law. Justice without the State, San Francisco, Pacific Institute Center for Policy Research, 1990, p. 31.

[2] Francesco Galgano, Lex mercatoria, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 52.

[3] Nathan Rosemberg-Luther E. Birzdell, Come l’Occidente è diventato ricco, p. 76.

[4] Francesco Galgano, Lex mercatoria, p. 37.

[5] William Wooldridge, Uncle Sam, the Monopoly Man, New Rochelle,Arlington House, 1970, p. 95.

[6] Bruce L. Benson, The Enterprise of Law, p. 32.

[7] Peter L. Bernstein, Oro. Storia di un’ossessione, Milano, Longanesi, 2002,  p. 115.

[8] Scrive infatti acutamente Carlo Lottieri: «Per certi aspetti, l’abbandono dell’oro come valuta fa il paio con la crisi dei sistemi rappresentativi medioevali, tanto che si potrebbe parlare di una più generale “tragedia della rappresentanza”. Nell’ambito monetario è infatti avvenuto qualcosa di simile a quanto accaduto in ambito politico, dove rappresentanti che in passato erano solo portaparola e mandatari di chi li aveva delegati, nel corso dei secoli sono riusciti ad appropriarsi in toto della volontà di chi avrebbero invece dovuto semplicemente difendere, rivendicando addirittura, e con successo, un mandato slegato da ogni vincolo o impegno contrattuali» (Carlo Lottieri, “L’oro e la storia d’Occidente”, Il Domenicale, sabato 19 aprile 2003, p. 2).

Per una rigorosa difesa della rappresentanza medievale e un’altrettanto esplicita condanna della rappresentanza moderna, che consegna il potere a rappresentanti senza vincolo di mandato, si veda il capolavoro del grande liberale Bruno Leoni, La libertà e la legge, Macerata, Liberilibri, 1995, pp. 126 ss.

[9] Harold J. Berman, Diritto e rivoluzione, pp. 355-357.

*Autore e curatore del libro “Prima dello Stato – Il Medioevo delle libertà”