Se il termine eclettismo può applicarsi estensivamente, e non in senso deteriore, o allo scopo, più o meno dichiarato, di diluire la gamma di significati riconducibili a ciò che esso designa, questo sembra essere il caso dell’antropologia giuridica. Il Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli (edizione 2005), così come il Sabatini Coletti (edizione 2008), concordano nell’indicare nell’eclettismo qualsiasi elaborazione teorica risultante dalla coordinazione di elementi di diversa provenienza, ovvero la tendenza a combinare modelli o metodi diversi in un qualsiasi campo d'indagine. Se una disciplina come l’antropologia giuridica si presta, per le sue peculiarità epistemiche, a renderne partecipe una pluralità di approcci teorici e metodologici, una ragione ci sarà: lo documenta, con ampiezza e abbondanza di riferimenti e di riflessioni, l’ultima fatica di Rodolfo Sacco, 1 intitolata per l’appunto Antropologia giuridica . Il taglio storico-comparatistico dell’opera in questione tradisce la linea di ricerca percorsa per lunghi anni dal suo autore2, e al tempo stesso indica una delle possibili vie nelle quali l’antropologo del diritto si inoltra. Ad essa infatti si aggiungono, ma, per essere più precisi, con essa spesso si intersecano altre vie, che promanano da altri ambiti disciplinari, come l’antropologia culturale3, l’antropologia filosofica, la sociologia4, la psicologia e la filosofia del diritto. Il fatto che Sacco mostri di privilegiare, ad esempio, l’approccio di Jacques Vanderlinden5 rispetto a quelli di Étienne Le Roy6 o di Norbert Rouland7, magari ignorandone altri, implica che gli incroci interdisciplinari che interessano l’antropologia giuridica risentono non solo delle personali inclinazioni dei ricercatori che vi si cimentano ma anche degli ampi margini di selezione tematica e metodologica sia inter- sia intra- disciplinari che l’antropologia giuridica presenta. Peraltro, la propensione multidisciplinare dell’antropologia giuridica, se da una parte sembrerebbe sottrarvi una reale specificità, dall’altra ne diventa proprio il fattore determinante, nella misura in cui essa consente di orientarsi nel complesso campo del diritto con una elasticità ermeneutica che ai tradizionali approcci scientifico-disciplinari non sempre appartiene. Dalla dogmatica giuridica alla scienza del diritto in senso lato, con le sue molteplici varianti dottrinali, ciò che caratterizza il diritto nella sua identità8 sembra sfuggire ad una rigida schematizzazione concettuale, tanto più in un mondo e in una società in continua e convulsa trasformazione, come quelli odierni. L’esigenza di sostenere la riflessione intorno al giuridico con una strumentazione metodologica, e con un’apertura euristica, che siano all’altezza delle sfide contemporanee sembra trovare proprio negli antropologi del diritto possibili risposte, che una antropologia giuridica di 9 indirizzo filosofico si incarica, invero, di sviluppare in senso problematico . sembra a tutt’oggi inchiodarla. È difatti più che legittimo che i sociologi del diritto tirino, per così dire, l’acqua dell’antropologia giuridica al loro mulino; se tale fosse l’atteggiamento dei filosofi del diritto, questi sarebbero probabilmente accusati di indebite invasioni di campo...In realtà, la plusvalenza epistemologica che contraddistingue l’antropologia giuridica sembra dipendere non tanto dalla contaminazione – questa sì, pseudo- eclettica, per non dire sincretistica – di elementi desunti da tipi diversi di approccio disciplinare quanto dalla sua attitudine a trasformarli in altrettanti fattori di rielaborazione teorico-critico-sistematica del diritto. Che il testo di Sacco spazi da un tempo all’altro del diritto, da un ambito all’altro del diritto, è un indice, estremamente significativo, dello sforzo compiuto da chi tenta una antropologia giuridica: se non si tratta dell’ennesima storia del diritto, la ragione va cercata nella “sensibilità” dell’oggetto di ricerca ad essere attinto da procedure euristiche ad ampio spettro. Ne offre un esempio paradigmatico il diritto di famiglia, il quale non potrebbe essere adeguatamente studiato, e penetrato nelle sue più profonde connessioni, se non a partire da una antropologia della famiglia, da una storia della famiglia, da una sociologia della famiglia, da una psicologia (individuale e collettiva) della famiglia, da una filosofia della famiglia: nessuno dei singoli approcci risulterebbe idoneo allo scopo di dare un quadro sintetico dell’istituto in parola, se prescindesse da un principio di accostamento tendenzialmente unitario, che una antropologia – giuridica – della famiglia sembra effettivamente in grado di fornire. Evocare un “principio” sa forse troppo di filosofia, e lascia sospettare un surrettizio coinvolgimento della filosofia del diritto; il problema è che, anche a non voler ammettere, in via principale o marginale, una dimensione propriamente filosofica dell’antropologia giuridica, si deve comunque riconoscere in quest’ultima l’urgenza di problematiche non altrimenti qualificabili che come filosofiche. Ne dà documentazione non solo la sopra indicata questione della giustizia ma anche il ripresentarsi, sotto denominazioni e in ambientazioni apparentemente post-filosofiche, di questioni come quelle relative alla parità dei diritti, o alla dialettica tra diritti individuali e diritti collettivi. Il peso che stanno assumendo oggi le politiche delle identità e del dialogo interculturale, solo per dirne una, non riducono bensì amplificano l’esigenza di una ridefinizione del diritto come portato di una concezione d’insieme della vita e del mondo. Antropologia giuridica è ciò che nomina sia la registrazione sia l’iniziale soddisfazione di questa esigenza: la plusvalenza che essa rappresenta comunica ad una storia, ad una sociologia, ad una teoria del diritto il ricalibrarsi critico dei dati in loro possesso, in modo tale da creare le premesse per l’ambientamento di una ricostruzione complessiva del fenomeno storico-culturale chiamato diritto. L’antropologia giuridica, in questo senso, si offre essa stessa come piano d’intersezione trasversale ad una storia, ad una sociologia, ad una teoria (filosofica e non), consentendo la riqualificazione degli studi giuridici in chiave – almeno tendenzialmente – transculturale: si pensi alla necessità odierna, non meramente pratico-didattica, di insegnare e di comunicare il diritto non più con esclusivo riferimento alla tradizione romanistica ereditata dal nostro diritto privato, o alla tradizione pubblicistica consolidata nel diritto eurocontinentale, ma anche con sempre maggior attenzione al common law, nonché ai sistemi giuridici tradizionali tuttora vigenti in vaste aree del mondo “globalizzato” e, per alcuni versi, nelle pieghe dello stesso Occidente. A questo livello l’antropologia giuridica (quasi sempre, per ora, sotto mentite spoglie) acquista un ruolo assolutamente centrale, annunciandosi come visione d’insieme del diritto – che a sua volta si è dato, e continua a darsi, quale espressione di più visioni d’insieme della società, della civiltà, dell’uomo. Il collocarsi dell’antropologia giuridica tra varie impostazioni disciplinari la fa essere capace di proporsi quale fattore di mediazione tra le varie culture giuridiche che interessano i processi di globalizzazione, e di de-globalizzazione, oggi in atto. Già grande sarebbe il merito di una antropologia giuridica che offrisse
la cornice di una fenomenologia del diritto, globalmente riconsiderato, sia
storicamente – dal Codice di Hammurabi al sofisticato diritto
dell’informatica –, sia nella realtà presente – dalle dichiarazioni dei diritti
universali alla shari’a. Per giunta, però, una antropologia giuridica si mostra
portatrice di una capacità di interrogazione critica degli elementi che
acquisisce, in ciò manifestandosi una sua peculiare vocazione filosofica. Ora,
anche a non voler atteggiarsi ad antropologi del diritto, coloro che si
imbattono nel diritto fenomenicamente inteso non possono fare a meno di
rilevare l’imprescindibilità di un accostamento che sia al tempo stesso
storico, etnologico, sociologico, psicologico, filosofico: non vorranno farsi
etichettare come antropologi del diritto, ma tali saranno dal momento che
integreranno, più o meno consapevolmente, questa pluralità di approcci.
D’altro canto, come si potrebbe oggi affrontare, e sperare di risolvere,
problemi come quelli attinenti alla possibile, e non scontata, convivenza
pacifica tra identità culturali diverse, interpreti di concezioni (spesso
alquanto) diverse in merito all’educazione o ai rapporti uomo-donna?
L’integrazione degli accostamenti sopra illustrati realizza una antropologia
giuridica, anche quando questa realizzazione non pensi, o non accetti, di
nominarsi come tale. Ed antropologico-giuridica viene altresì a configurarsi
la posizione identificabile, talora tra le righe, in quegli autori e in quelle
opere che, quanto meno in alcuni passaggi, esprimono un’integrazione delle
prospettive ermeneutiche che legano l’idea di diritto presente in una
antropologia o, ancora, l’idea di uomo presente in una storia, in una
sociologia, in una psicologia, in una etnologia, in una filosofia del diritto. Un passo ulteriore che l’antropologia permette di avanzare porta, in definitiva, a pensare il diritto stesso come una antropologia: come un modo, forse il modo più esaustivo, nel quale gli uomini di una determinata società e, in generale, gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi rappresentano se stessi e il loro mondo da tutte le possibili, ma sempre parziali, angolature: anzitutto l’economica, la politica, l’etico-religiosa. La regolazione giuridica delle relazioni sociali – oggetto di una antropologia sociologica del diritto che spesso si sovrappone ad una certa antropologia economica – riflette infatti (più o meno fedelmente) una strutturazione economica delle stesse; l’articolazione delle strutture di dominio – oggetto di una sociologia e di una antropologia politiche – riproduce la dialettica di primato/subalternità assunta, almeno dalle antropologie marxiana e marxista, a schema interpretativo unilaterale della realtà sociale; una antropologia pragmatica (kantianamente intesa14) e una antropologia morale mettono a tema le regole di condotta che danno forma alla convivenza tra gli uomini, e i cui riflessi psichici costituiscono l’oggetto di una antropologia psicologica; una antropologia etnologica riassume tutte le istanze delle antropologie sociologica, economica, politica, morale, facendo leva sull’appartenenza dell’uomo a “gruppi”, a popoli, a culture, in poche parole alla dimensione comunitaria in cui si esprime la sua esistenza; spetta tuttavia ad una antropologia religiosa lavorare sull’ipotesi – non dimostrabile, ma conoscibile per via indiretta, in ogni caso ispiratrice di condotte, scelte, decisioni non altrimenti motivabili, e per di più rinnovabili nel tempo – di una estensione del campo relazionale dell’uomo al di là dei limiti stabiliti dalla percezione sensoriale della corporeità (basti pensare a tutta la fenomenologia del sacro e ai riti di sepoltura). Finanche quest’ultima ermeneutica, che sembrerebbe in assoluto la più “eclettica”, poiché abbraccia persino gli aspetti dell’umano che si sottraggono alla sua conoscibilità per empirica presa diretta, soffre un ultimo scacco, che è dovuto non tanto alla multiformità delle opzioni religiose, quanto alla sua stessa vocazione a concentrarsi su ciò che di essenzialmente spirituale occupa l’autorappresentazione dell’uomo. Una antropologia filosofica – e forse, per certi versi, filosofico-religiosa – potrebbe prendere forma da una ri-fondazione (ontologica o, meglio ancora, metafisico- esistenziale) di tutti questi apporti. Resta che sarebbe non solo da determinarne la valenza teoretica ma anche da dispiegarne la portata pratica, in ordine all’esigenza di disporre di una ripresa autenticamente integrata di tutte le fonti di conoscenza e di attività (sia lavorativo-trasformativa sia poetico-pensante) alle quali una antropologia può attingere. Perfino una antropologia scientifica denuncerebbe, in ipotesi, tutti i suoi limiti, e le sue contraddizioni, come accade oggi all’antropologia (quasi-)scientifica e (quasi-)filosofica che sottende per lo meno talune interpretazioni della bioetica (e della biogiuridica). Soltanto una antropologia giuridica, non a bassa ma a forte intensità filosofica, eticamente impegnata tanto col momento del diritto quanto con quello del dovere (di essere, di fare, di amare), sembra garantire la motivazione di fondo che qualunque antropologia – fosse anche soltanto quella fisica, o quella fisiologica – presuppone, ossia la ricerca intorno a ciò che rende l’uomo tale quale è, e tale quale diventa (in tale ultimo caso sarebbe forse più opportuno parlare di antropologia etica, o etico- esistenziale15) . Soltanto una antropologia giuridica sembra fondere in un solo formato ermeneutico le chiavi d’accesso all’umano che le altre antropologie forniscono, ciascuna a suo modo, e con prospettive variamente apprezzabili. Soltanto una antropologia giuridica sembra incline a valorizzare, certo con maggiore o minore perspicuità, tutti gli elementi che affluiscono, con significati di volta in volta particolari, ai centri di elaborazione analitica delle altre antropologie. Non che l’antropologia giuridica non abbia a sua volta bisogno di una fase analitica, magari accompagnata da un preciso e meno “eclettico” impegno speculativo; ma, se si risolvesse in questa pur necessaria fase, si tratterebbe, in ultima analisi, di una lodevole e non banale antropologia del diritto, come una sociologia del diritto, costruita come una scienza umana, o sociale. Dire antropologia giuridica, invece, e con una connotazione forte, non designa una antropologia fra le altre, perché vale a sostanziare l’antropologia di tutti gli attributi giuridici che la interessano, nonché a tradurre il diritto nei termini di una visione d’insieme dell’uomo, considerato come ente culturale nei suoi rapporti con la natura – compresa, eventualmente, la sua –, e con la sopra- natura. L’ambizione di una Antropologia giuridica come quella di Sacco, come quelle, a suo tempo, di Rouland o di Vanderlinden, muove da tutto quest’ordine di fattori, che consentono di inquadrare un livello pre- istituzionale (e meta-istituzionale) della ricerca intorno al diritto (e dell’insegnamento, come della pratica, dello stesso), restituendo a quest’ultimo i motivi di consistenza di uno statuto epistemico che non si assimila necessariamente alla sua presentazione in termini di formalizzazione ordinamentale. Pesa sulla verifica di quest’ambizione non solo il retaggio degli autori che vi si cimentano (storico-giuridico, antropologico-culturale etc.) ma anche la riserva opposta da chi sèguita a ritenere il diritto un sottoprodotto (sottosistemico, per dirla con linguaggio luhmanniano) puramente “storico” di processi sociali, materiali, economici, politici, cui viene attribuito, su di un’ideale scala gerarchica, valore primario. In questa ottica, deformata da una lettura di Hegel attraverso Marx, l’antropologia giuridica può essere sotto-valutata come nulla più che un momento dell’antropologia economico- politica delle strutture di subordinazione che reggono la dialettica della socialità umana. Se però si provasse a rileggere Hegel non solo con Marx, e con Sartre, ma anche con Mauss e con Lévi-Strauss, si avrebbe modo di rilevare che, accanto alle strutture di subordinazione, nelle società umane trovano posto strutture di coordinazione, sostenute da una forza di attrazione, fra i termini che esse legano, che è pari se non superiore alle prime, e che sembra rimontare alla cultura non meno che alla natura. Che il diritto funga da fattore di simbolizzazione di quest’altra dialettica, a cominciare da quanto ne dà a conoscere, e a pensare, la fenomenologia della famiglia e della parentela16, sta ad indicare che esso assolve un ruolo tutt’altro che secondario, in una misura tale da suggerire un rovesciamento di prospettiva, per cui l’organizzazione politica ed economica di una società andrebbe letta in funzione dell’ordine giuridico in corrispondenza del quale essa trova, e cambia, i suoi assetti. Una antropologia giuridica è di fatto resa possibile dall’incidere essenziale, sul piano di una dialettica conflittuale, che dà luogo e corso politico-economico a pratiche di riconoscimento, di una dialettica comunicativa che promuove una prassi generata dalle dinamiche di aggregazione tra le componenti di una società: componenti che sono non soltanto i membri effettivi di un corpo sociale ma anche gli enti mondani, e le potenze extra-mondane, che ispirano – o si presume che ispirino – le condotte umane, e che abitano la terra nonché il cielo degli umani, dando forma e senso ai loro miti, ai loro riti, ai loro ideali, ai loro costumi, alle loro credenze. Una storia dell’antropologia giuridica potrebbe ricostruirla nelle sue svariate diramazioni e nelle sue occasionali deviazioni di percorso; una teoria – filosofica – dell’antropologia giuridica, viceversa, potrebbe individuarne, e chiarirne, il còmpito di decifrare quella sorta di ‘super-codice’ con il quale il diritto esplica la sua forza costitutiva, e regolativa, di agente promotore di civilizzazione delle forme dell’esperienza umana: di quella esperienza nella quale Henry Sumner Maine ravvisava la norma dirigente della legislazione, e di ogni forma di attività politica17. Note
1 Bologna 2007. 5 Cfr. J. Vanderlinden, Anthropologie juridique, Paris 1996. 9 Mi permetto rinviare al mio Per una antropologia filosofica del diritto, Napoli 2006, oltre che a Le culture di Babele. Saggi di antropologia filosofico-giuridica, a cura di E. Di Nuoscio e P. Heritier, Milano 2008. Sin dagli inizi del secolo scorso, per altro, Alessandro Levi avvertiva, nelle illuminanti considerazioni che seguono, la necessità di una feconda interpenetrazione tra quella che allora veniva designata col nome di etnografia giuridica e la filosofia del diritto: «la filosofia del diritto può fruttuosamente giovarsi dei contributi dell’etnografia. Ma questa non può, assolutamente, usurpare il posto di quella. (...) Per compiere indagini di etnografia giuridica, occorre sapere che cos’è il diritto, cioè conoscere i fondamenti di quei fenomeni che si vogliono rintracciare. (...) Ora, solo la filosofia del diritto può rispondere a pieno alla domanda: che cos’è il diritto? Ad essa soltanto spetta di chiarire i presupposti critici dell’etnografia giuridica, come di tutte le altre discipline, dommatiche e storiche, che rientrano nel sistema della giurisprudenza. Ed alla filosofia del diritto spetterà pure il compito di saggiare il valore psicologico, di determinare il significato intimo dei contributi etnografici; in altre parole di considerare sub specie aeterni, come espressioni dell’attività pratica dello spirito, i documenti rivelati e raccolti dall’etnografo. Niun male se, talvolta, le indagini filosofiche ed etnografiche si compenetreranno; (...) non potrei considerare come uno studio di filosofia giuridica se non quello in cui dalle ricerche etnografiche si risalisse a considerazioni filosofiche. (...) Bisogna che promoviamo queste ricerche di etnografia e di demopsicologia giuridica. La filosofia giuridica non può compierle essa, senza snaturarsi; ma può, ma deve caldeggiarle, mostrandone il valore ed additando i preziosi risultati scientifici e pratici che se ne possono ottenere» (A. Levi, Contributi della Società di Etnografia Italiana allo studio del diritto e della coscienza giuridica popolare (1913), in Id., Scritti minori di filosofia del diritto, Padova 1957, I, pp. 279 e 281). 10 Per la tradizione italiana di studi si ricordi, in proposito, G. Mazzarella, La concezione etnologica della legislazione, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 6/1926, pp. 520-534. 11 Cfr. N. Rouland, Aux confins du droit. Anthropologie juridique de la modernité, Paris 1993, pp. 182-183. In proposito mi permetto menzionare Nuove frontiere del diritto: l’antropologia del diritto moderno, cap. V dei miei Studi di antropologia giuridica, cit., in particolare pp. 124-131. 12 Cfr. C. Geertz, Conoscenza locale: fatto e diritto in prospettiva com parata, in
Antropologia interpretativa, Bologna 1988, pp. 209-299. 13 Mi riferisco all’impiego diffuso che Sergio Cotta fa di questo termine nel suo Il diritto nell’esistenza, Linee di ontofenomenologia giuridica, Milano 1991. 14 Il pensiero va naturalmente all’Antropologia pragmatica di I. Kant (ed. it. Roma-Bari 2001). 15 Si tengano presenti le possibilità insite, al riguardo, in tutta la produzione letteraria e filosofica di Kierkegaard. 16 Cfr. innanzitutto C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano 2003. 17 Cfr. I. Vanni, Gli studi di Henry Sumner Maine e le dottrine della filosofia del diritto, Verona 1892, p. 104. |
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