Di ROBERTO CICCARELLI. «In galera, gettate la chiave, fateli marcire in cella». Il piacere della gogna e del supplizio aizzato da schiumanti ministri contro latitanti dagli anni Settanta, capitane delle navi delle Ong o migranti sopravvissuti ai naufragi e ai campi di concentramento in Libia, è l’espressione del populismo penale. L’uso demagogico e punitivo del diritto oggi trasforma i dissenzienti, e non solo i responsabili di un reato, in criminali, nemici dell’umanità, colpevoli di condotte contrarie al volere del potere, indipendentemente dal fatto che le sue leggi rispettino i diritti fondamentali delle persone. IL «SALVINISMO», variante di questo populismo, è una contraddizione nella storia dell’illuminismo giuridico di Beccaria, nucleo fondante della cultura giuridica del XX secolo. Il suo autoritarismo non è tuttavia estraneo a questa storia illuminata. Al contrario, è uno dei suoi risvolti. La legge, il potere, il diritto, l’economia non sono mai innocenti. Sono dispositivi che difendono una società intesa come un insieme di valori e interessi omogenei. Chi squarcia il sipario di questa finzione è considerato un deviante, talvolta un “nemico”. Prima che il diritto egli contraddice il “bene” che unisce la comunità. Sono tutte credenze, contrarie allo stato di diritto costituzionale, che addebitano la causa del reato a una “naturale” propensione alla devianza da parte dell’oppositore e comunque del diverso. Questa strategia risponde all’ideologia della difesa sociale, il cuore di tenebra dello Stato di diritto. Punto di arrivo di una lunga evoluzione del pensiero penalistico e penitenziario, questa ideologia organicistica riproduce un’idea astorica della società funzionale alla riproduzione del potere del momento. Formalmente difende gli interessi dei cittadini (il “popolo”). In realtà garantisce i dominanti in nome della trinità: proprietà, confini e sovranità. È in nome di queste leggi che nascono i processi di criminalizzazione guidati da chi ha il potere di definire i subalterni, i poveri o i migranti attraverso uno stigma, un’etichetta, lo status sociale di “criminale”. LA CRITICA di questa ideologia oggi è necessaria, considerata la sua aggressività e il vistoso arretramento della capacità di interpretarla e combatterla. Gli strumenti utili per realizzare una simile impresa si trovano in uno dei capolavori del pensiero critico che è stato finalmente ripubblicato. Parliamo di Criminologia critica e critica del diritto penale di Alessandro Baratta (Meltemi, pp. 311, euro 20). Insieme a Carcere e fabbrica di Dario Melossi e Massimo Pavarini (ripubblicato l’anno scorso da Il Mulino, recensito da Patrizio Gonnella su Il manifesto il 30 ottobre 2018); Sorvegliare e punire di Michel Foucault (Einaudi); Pena e struttura sociale di Georg Rusche e Otto Kirchheimer (Il Mulino), il libro di Baratta permette di comprendere il potere come una manifestazione del controllo sociale e del governo della forza lavoro che integra e reprime, socializza e punisce, educa e cambia la mentalità attraverso il sistema penale, il carcere, la scuola o il mercato del lavoro. Scritto nella stagione della più grande avanzata delle lotte operaie e sociali dal Dopoguerra, il libro riprende la genealogia del potere disciplinare e la analizza alla luce delle nuove tendenze del “tardo-capitalismo”, quella che più tardi sarebbe stata definita come la sua svolta “neoliberale” o “postfordista”. Baratta vede la discontinuità evidenziata nel dibattito tra Foucault e Gilles Deleuze sul passaggio dalla società disciplinare a una società del controllo. Il carcere, oggetto della sua riflessione, è considerato parte di una “rete” di poteri – definita da Foucault “panottico” – dove l’individuo ha la funzione di (auto)disciplinarsi e controllare gli altri. Strumento di inclusione ed esclusione della forza lavoro, esso fa parte di un’«economia politica della pena e della criminalità» e risponde ai «rapporti di produzione». IN QUESTA CORNICE è vibrante la polemica contro la criminalizzazione dei movimenti sociali creata dal diritto penale dell’emergenza contro il terrorismo. Baratta critica i “partiti operai” (il Pci in Italia, l’Spd in Germania) che scelsero nel corso degli anni Settanta di farsi coinvolgere nella «politica dell’ordine pubblico corrispondente alla logica del capitale e dei suoi interessi». Questa impostazione serve oggi per ricostruire la storia politica del giustizialismo. Di solito si considera solo una parte di questa storia, considerata come un’involuzione della magistratura nel suo rapporto con il potere politico. La critica del diritto penale, che è anche critica dell’uso politico del diritto fatto dai suoi attori, inserisce tali vicende nella più ampia trasformazione del capitalismo «che ha bisogno, per motivi ideologici e economici, di disoccupati e di un’emarginazione criminale». PUBBLICATO NEL 1982, questo libro non è solo un classico della “criminologia critica”, un approccio a cui ha dato un solido inquadramento teorico insieme a Melossi, Pavarini, Giuseppe Mosconi o Tamar Pitch in Italia. È anche uno dei più importanti contributi al rapporto virtuoso tra i saperi critici e i movimenti sociali. Questa opera ha lo stesso valore di quella di Franco e Franca Basaglia a sostegno dell’abolizione dell’istituzione totale del manicomio, quella di Foucault contro il carcere e la repressione, di Marx nella critica dell’economia politica del capitalismo o della scuola di Francoforte nella teoria critica della società. La consapevolezza della sintesi, e delle differenze tra questi approcci, emerge in un testo fondamentale tanto per gli studenti, quanto per chi è alla ricerca di una politica che passi all’attacco e non resti a difesa dei principi. Criminologia critica e critica del diritto penale è stupefacente per la sua capacità di offrire strumenti utili per smontare la strategia bipartisan del securitarismo. Si tratta dell’esito virulento della nostra società neoliberale che ha concepito il rischio come un’opportunità e consuma la libertà (economica) che pretende di produrre cancellandola con un’escalation di sanzioni, repressioni e politiche di polizia. Il libro di Baratta è un antidoto «alla Lombroso renaissance potenziata dall’uso delle gogne mediatiche sui social network e del risentimento sociale», scrive la curatrice del volume Anna Simone. La chiave di questo classico sta nell’adottare il punto di vista delle classi subalterne, seguendo la trasformazione della loro oppressione, senza trascurare il fatto che tale oppressione è anche il risultato dell’interiorizzazione dei comportamenti che rendono i subalterni lo specchio di ciò che vuole il potere. Obiettivo della «teoria materialistica della devianza», scrive Stefano Anastasia nella postfazione, è una «politica criminale alternativa» fino «alla prospettiva della massima contrazione e, al limite, del superamento del sistema penale». La tensione tra la prospettiva dell’abolizionismo penale e l’adozione di un «diritto penale minimo» è uno dei punti problematici e vivi di questa ricerca. La libertà del suo autore indica comunque una tendenza alternativa al diritto penale della diseguaglianza, lo scandalo che ha generato anche il populismo penale oggi al potere. «Il programma di Baratta – scrive Dario Melossi nella prefazione al volume – ha come bersaglio il populismo penale che, inventato Oltreoceano alla fine del secolo scorso, come accompagnamento penale alle tesi neoliberiste, è infine approdato sulle nostre coste sotto le bandiere del “sovranismo”, proprio nel momento in cui Oltreoceano se ne sta cominciando a fare la critica». Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 24 luglio 2019. |
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