La vita in una voce Cominciavo i miei corsi di scrittura dicendo che chiunque sia capace di parlare sa anche scrivere. Dopo aver rassicurato i presenti con questa prospettiva allettante, li mettevo di fronte a un enorme ostacolo: «Secondo voi, quante persone in quest' aula sono capaci di parlare? Parlare sul serio, intendo», cosa che non mancava mai di produrre un effetto deprimente. Dicevo loro di leggere qualunque scritto a voce alta, preferibilmente a un amico fidato. Le regole sono sempre le stesse: evitate le frasi fatte (come la peste, diceva William Safire) e le ripetizioni. Non dite che "da bambino" vostra nonna leggeva per voi, a meno che in quella fase della sua vita lei non fosse davvero un bambino, nel qual caso è probabile che abbiate sprecato un incipit migliore. Se qualcosa merita di essere udito o ascoltato, quasi sicuramente merita anche di essere letto. Quindi, prima di tutto, trovate la vostra voce. Il complimento più gratificante che può farmi un lettore è dirmi che si sente chiamato in causa personalmente. Pensate ai vostri scrittori preferiti e riflettete se non sia proprio questa una delle cose che vi attraggono, anche se spesso all' inizio non ve ne rendete conto. L' unico equivalente umano è una buona conversazione: quando ti rendi conto che si dicono e ascoltano argomentazioni valide, che c' è ironia, e approfondimento, e che un commento ottuso o banale sarebbe quasi fisicamente doloroso. Così la filosofia si sviluppò nei simposi, prima di essere scritta. E la poesia esordì con la voce quale unico mezzo, e l' orecchio come unico recipiente. In effetti, non conosco alcun grande scrittore che fosse sordo. Come sarebbe mai possibile, anche con l' ingegnoso linguaggio dei segni dell' Abbé de l' Épée, apprezzare le impercettibili punzecchiature e le deliziose sfumature trasmesse da una voce ben modulata? Henry Jamese Joseph Conrad dettarono i loro ultimi romanzi - cosa che andrebbe annoverata tra le maggiori imprese vocali di tutti i tempi, anche se forse qualcuno rileggeva loro qualche passaggio - e Saul Bellow dettò gran parte del Dono di Humboldt. Senza la nostra sensibilità per l' idioletto - il modo particolarissimo in cui un individuo parla, e di conseguenza scrive - saremmo privati di un intero universo di comprensione umana, e dei suoi piccoli piaceri come l' imitazione e la parodia. Più solennemente: «Tutto quello che ho è una voce» scrisse W.H. Auden in 1° settembre 1939, il suo sofferto tentativo di comprendere, e combattere, il trionfo del male assoluto. «Chi può arrivare ai sordi?» si chiedeva con disperazione. «Chi può parlare per i muti?». All' incirca nello stesso periodo, il futuro premio Nobel Nelly Sachs, un' ebrea tedesca, scoprì che l' avvento di Hitler l' aveva resa letteralmente muta: privata della sua stessa voce dalla radicale negazione di tutti i valori. Un concetto che ritorna nel nostro linguaggio quotidiano, seppure in forma meno drammatica: quando muore una personalità pubblica particolarmente impegnata, spesso i necrologi dicono che era "una voce" per chi non era ascoltato. Dalla gola dell' uomo possono provenire anche tremendi flagelli: urla, salmodie, lamenti, grida, incitamenti («le idiozie di partito più vacue» come diceva Auden nella stessa poesia) e persino sogghigni. È il caso di levare piccole voci ferme contro questo profluvio di chiacchieree baccano, le voci della saggezzae della moderazione cui aneliamo. In tutti i più grandi testi che esaltano la saggezza e l' amicizia, dall' Apologia di Socrate scritta da Platone alla Vita di Samuel Johnson di Boswell, riecheggiano i momenti parlati, spontanei, in cui si dialoga, si ragiona e si riflette. È in occasioni come quelle, misurandosie confrontandosi con altri, che si può sperare di scoprire il magicoe sfuggente mot juste. Per me ricordare l' amicizia significa rievocare le conversazioni che sembrava un peccato interrompere: quelle che rendevano poca cosa il sacrificio del giorno dopo. Così Callimaco scelse di ricordare l' amatissimo Eraclito (nella versione del poeta inglese William Cory): Mi hanno detto, Eraclito, mi hanno detto che eri morto. Mi hanno portato notizie amare da ascoltare, e amare lacrime da versare. Ho pianto ricordando quanto spesso tu e io abbiamo stancato il sole parlando, e lo abbiamo tirato giù dal cielo E rivendica l' immortalità dell' amico per la dolcezza dei suoi toni: Le tue voci piacevoli, i tuoi usignoli, sono ancora desti, perché la morte, che tutto porta via, non ha potuto prenderli. Forse un po' troppo confortante, quest' ultimo verso... Nella letteratura medica, la "corda" vocale è una semplice "piega", un lembo di cartilagine che si tende e tocca il suo gemello, producendo così un' ampia varietà di effetti sonori. Ma io sento che dev' esserci una relazione profonda con la parola "corda": la vibrazione sonora capace di suscitare ricordi, produrre musica, evocare l' amore, far piangere, muovere la folla alla pietà e infiammare di passione le masse. Forse non siamo, come ci gloriavamo di essere, l' unico animale in grado di parlare. Ma siamo gli unici che possono usare la comunicazione vocale per puro piacere e divertimento, combinandola con la ragione e l' umorismo, gli altri due vanti dell' uomo, per produrre sintesi più elevate. Perdere questa capacità significa essere privati di un' intera gamma di facoltà: equivale senza dubbio a morire, e non solo un po' . La mia principale consolazione in quest' anno che ho vissuto morendo è stata la presenza degli amici. Non posso più mangiare o bere per piacere, perciò quando si offrono di venire a trovarmi è solo per avere la piacevole opportunità di chiacchierare. Alcuni di loro sono in grado di riempire una sala di spettatori paganti desiderosi di ascoltarli: sono conversatori con cui è un privilegio anche soltanto tenersi in contatto. Ora almeno posso ascoltarli gratis. Possono venire a trovarmi? Sì, ma solo in un certo senso. Così ogni giorno mi reco in una sala d' attesa, e seguo le terribili notizie dal Giappone su una tv via cavo (spesso sottotitolate, giusto per torturarmi), e aspetto impaziente che un' elevata dose di protoni venga sparata nel mio corpo a una velocità pari a due terzi di quella della luce. In cosa spero? Se non in una cura, in una remissione. E cosa voglio che mi sia restituito? Per dirlo con la più bella combinazione di due semplicissimi vocaboli della nostra lingua: la libertà di parola. La Repubblica 15 ottobre 2012 |
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