Prospettive critiche sul simbolismo scenico di Giuliana Altamura Il teatro simbolista è un capitolo rimasto relativamente in ombra negli studi accademici. La bibliografia che lo riguarda è tutt’altro che vasta e sono diverse le ragioni che hanno portato a una sottovalutazione della sua rilevanza storica. In primo luogo si tratta di un’esperienza scenica piuttosto circoscritta, legata all’origine fondamentalmente all’attività di due teatri − il Théâtre d’Art di Paul Fort (1890-1892), nato come Théâtre Mixte, e il Théâtre de l’Œuvre di Lugné-Poe (1893-1897) – che non ebbero certo una particolare fortuna, tanto per i limiti economici con i quali si trovarono sempre a lottare e che non consentirono mai un livello artistico realmente professionale, quanto per le obbiettive difficoltà di ricezione da parte di pubblico e critica delle novità sceniche che i loro intenti rivoluzionari, al di là di ogni risultato, 1 negativamente, come avremo modo di rilevare, la prospettiva stessa con cui i primi studiosi – a partire dal secondo dopoguerra – se ne sono occupati. In effetti, sono molte le difficoltà legate allo studio del simbolismo teatrale dal punto di vista scenico, in primo luogo difficoltà documentative: è rimasto ben poco materiale che aiuti a ricostruire gli spettacoli dell’Art e dell’Œuvre (raccolto per lo più nel Fondo Rondel della Bibliothèque Nationale de France) e le fonti principali restano gli scritti giornalistici, i cui limiti di parzialità sono oggettivi. I quattro libri di memorie lasciatici da Lugné-Poe, protagonista indiscusso di questa stagione, costituiscono una testimonianza d’eccezione riguardo alla sua personalità istrionica e 2 prorompente, risultando tuttavia quasi del tutto inaffidabili dal punto di vista storico . Ma al di là del problema delle fonti, che interessa relativamente in questa sede, emergono diverse questioni di ordine teorico che risultano ineludibili per chiunque voglia impostare un lavoro di spessore critico sul teatro simbolista. Prima di passare in rassegna gli studi che sono stati a oggi pubblicati sull’argomento, ci limiteremo a elencare brevemente alcuni di questi nuclei problematici principali, ciascuno dei quali segnerebbe per la ricerca un indirizzo ben preciso da seguire e ugualmente indispensabile. Senza dubbio è necessario porsi in primis la questione del rapporto fra la teoria e la prassi scenica: il teatro simbolista non è stato teorizzato da uomini di teatro, bensì da letterati la cui intenzione era quella di sottomettere la scena alla Poesia, di annullare la fisicità dell’attore nell’universalità della Parola. Non va dimenticato però che difficilmente furono letterati in prima persona ad allestire gli spettacoli: Lugné-Poe fu tutt’altro che un teorico del teatro. Certo gli scritti teorico-letterari furono importantissimi per lo sviluppo del movimento, ma il limite di molti studi è proprio quello di fermarsi alle dichiarazioni dei letterati assumendo le loro utopie come unica prospettiva per l’analisi delle messinscene. Ciò risulta particolarmente evidente per la questione dell’influenza wagneriana, caposaldo del simbolismo teatrale: la maggior parte delle analisi finisce con l’occuparsi più di come l’estetica del compositore abbia influito a livello filosofico che sulle modalità rappresentative, cui ha dato invece numerosi impulsi d’importanza capitale, a partire dalla scelta dell’oscurità in sala, alle cosiddette orchestrazioni multisensoriali che sottintendono l’idea di arte totale, all’applicazione del concetto di leit-motiv a diverse categorie di segni. Strettamente correlato alla questione del rapporto fra teoria e realizzazione, è il dibattito sulla relazione fra poesia e scena. Bisognerà domandarsi se effettivamente il teatro di Fort e Lugné-Poe è un teatro che rifiuta se stesso per portare la parola poetica in primo piano o se invece è un teatro che, proprio attraverso quella parola, cerca di sperimentare formule nuove. Altre problematiche complesse sono quelle che derivano dalla contestualizzazione storico-culturale del simbolismo: quali sono stati i suoi rapporti con i fermenti artistici e politici dell’epoca? Sarebbe necessario soffermarsi sulle relazioni indubbiamente proficue che il simbolismo intrattenne col movimento anarchico, col naturalismo, col misticismo, le correnti neo-cristiane ed esoteriche, con il wagnerismo. E a proposito di wagnerismo, un capitolo a parte andrebbe dedicato all’interrelazione fra le arti che mai come sulla scena dell’Art e dell’Œuvre assunse forme così sperimentali e avanguardistiche. Infine è proprio il rapporto con le avanguardie a indicare un ulteriore terreno d’indagine: in che maniera il teatro simbolista sarebbe riuscito ad anticiparle e a porsi in relazione col Novecento? Proviamo a capire se e in che modo le pubblicazioni di questi ultimi sessant’anni siano state in grado di affrontare l’analisi di un’esperienza scenica tanto complessa, seguendo l’evolversi delle prospettive critiche sempre limitatamente alla realtà spettacolare, tralasciando dunque la più vasta bibliografia relativa ai singoli drammaturghi o più in generale all’ambito teorico-letterario dell’immaginario e della poetica. La prima opera interamente dedicata al Théâtre de l’Œuvre è dell’americana 3 Gertrude R. Jasper . Adventure in the theatre, pubblicato nel 1947 dalla Rutgers University Press, identifica sin dalla premessa la storia del teatro che ha portato a compimento l’impresa simbolista di Paul Fort con la figura del suo fondatore Lugné- Poe. Jasper ripercorre «the story of a man and a theatre» partendo dall’infanzia del primo fino al concludersi della sua esperienza simbolista negli ultimi anni del 4 diciannovesimo secolo . La studiosa ebbe la fortuna di conoscere personalmente Lugné-Poe e sua moglie − l’attrice Suzanne Desprès, che rivestì un ruolo altrettanto fondamentale nella storia dell’Œuvre – durante l’ultima estate di vita dell’ormai ex- 5 direttore del teatro, ritiratosi nella residenza campestre di Villeneuve-lès-Avignon . Nonostante quindi possa vantare fonti dirette e l’aiuto personale di Mme Després, che avrebbe collaborato alla sua ricerca con un fitto scambio epistolare dopo la morte del marito, Adventure in the theatre si basa in primo luogo sulle memorie di Lugné-Poe, della cui scarsa attendibilità è già stato detto. Tuttavia, il merito principale che va riconosciuto all’impostazione teorica dell’opera è quello di riuscire, quanto meno nelle intenzioni, a non perdere di vista la prospettiva scenica: l’Œuvre viene presentato come un teatro la cui vera sostanza «aimed at being dramatic rather than literary»; Lugné-Poe come un professionista che considerava «the stage, not books» il 6 accademicamente, da Robichez in poi, a essere definito solo in termini di negazione della teatralità stessa. Nei due capitoli iniziali Jasper si sofferma sulla formazione di Lugné-Poe, dall’ambito familiare e scolastico dell’illustre liceo Condorcet − dove fu fra gli animatori principali del Cercle des Escholiers − ai primi contatti con i teatri statali, fino ad arrivare agli studi in Conservatorio sotto la guida di Worms e alle collaborazioni con Antoine al Théâtre Libre. Il taglio narrativo e aneddotico, poco approfondito dal punto di vista documentativo, ricorda molto da vicino i toni della Parade. Poco spazio è dedicato all’approfondimento del contesto storico-culturale che determinerà la personalità artistica di Lugné-Poe e del suo teatro: Jasper cita Verlaine, Mallarmé, Huysmans, Khan e il wagnerismo più per evocare in linea generale il fervore del clima simbolista che per tracciare un quadro teorico da porre poi in relazione con la nuova teatralità elaborata sulla scena dell’Œuvre. Anche nella rassegna degli spettacoli del Théâtre d’Art cui Lugné-Poe prese parte – così come di quelli realizzati con gli Escholiers e nella sua breve carriera d’attore sotto contratto all’Odéon di Porel – manca un reale impegno di ricostruzione scenica: affidandosi soprattutto alle memorie del nostro protagonista e alle recensioni sulle riviste dell’epoca, lo studio finisce col limitarsi a un resoconto della ricezione critica sempre e comunque subordinato al filo narrativo biografico dell’imprescindibile story of a man. Lo stesso discorso vale per l’analisi delle messinscene dell’Œuvre che vengono presentate nei capitoli successivi, a partire da quella di Pelléas et Mélisande che segna, anche se non ancora ufficialmente, la nascita del teatro: Jasper ripercorre le vicissitudini che portarono alla realizzazione dell’opera simbolista per eccellenza dopo una breve digressione sulla drammaturgia di Maeterlinck, restando sempre in bilico sull’aneddotico, per poi dedicare uno spazio più ampio ed esaustivo al resoconto critico, sul quale si basano fondamentalmente anche le descrizioni della 7 messinscena stessa . Questo procedimento risulta ancora più evidente nel terzultimo capitolo in cui, dopo aver passato cronologicamente in rassegna i primi sette anni dell’Œuvre, viene dedicato un approfondimento ad alcuni spettacoli ritenuti particolarmente memorabili: Le Chariot de terre cuite (capolavoro del teatro sanscrito adattato dall’anarchico 8 Barrucand), la Salomé di Wilde, Peer Gynt, Ubu roi e Ton sang di Bataille . In tutti e cinque i casi, Jasper distingue la sua analisi in una prima parte finalizzata a mettere in luce la nascita dello spettacolo e della sua produzione materiale (che si tratti della traduzione di Barrucand, della difficile situazione personale di Wilde, del rapporto contrastato fra Lugné-Poe e Bataille o di quello più proficuo con Jarry), per poi passare direttamente a occuparsi della ricezione. Lì dove si sofferma maggiormente sulla realizzazione scenica, ritroviamo informazioni – ancora una volta a sfondo aneddotico – estrapolate per lo più dall’autobiografia di Lugné: dall’emergenza costumi ne Le Chariot che si risolse in uno scandaloso caso di nudismo sul palco, 9 all’incidente con la finta testa recisa di Giovanni nella Salomé . Va dato atto alla Jasper, tuttavia, di aver dedicato la giusta attenzione al rapporto di Lugné-Poe con la drammaturgia scandinava e all’importanza da lui rivestita nella diffusione di quest’ultima nel teatro francese. Due interi capitoli di Adventure in the theatre sono infatti incentrati sull’ascesa di Ibsen in Francia e sugli spettacoli dell’autore norvegese, come anche di Strindberg e di Bjørnson, portati in scena 10 all’Œuvre . Sebbene l’impostazione dello studio resti sempre la stessa e non indaghi in profondità sul significato e sulle conseguenze dell’appropriazione simbolista della nuova drammaturgia nordica, ci permette ugualmente di comprenderne – anche solo 11 daunpuntodivistaquantitativo–ilpeso . In conclusione, questa pubblicazione mira soprattutto a sottolineare il fervore con cui Lugné-Poe e il suo «theatre of combat» abbiano cercato di portare un reale rinnovamento nel teatro contemporaneo, nonostante le difficoltà ricettive e 12 finanziarie . Resta tuttavia un primo tentativo di ricostruire la storia dell’Œuvre poco approfondito dal punto di vista critico e documentativo, ancora incapace d’indagare sulle problematiche che l’esperienza del simbolismo teatrale ha portato alla luce. Nel 1957 Jacques Robichez, dottore di ricerca all’Università di Parigi, pubblica la sua tesi dal titolo Le Symbolisme au théâtre. Lugné-Poe et les débuts de l’Œuvre con l’editrice L’Arche . Preceduto due anni prima da uno studio dello stesso autore dedicato interamente a Lugné-Poe e che ne rappresenta una sorta di anticipazione ripresa e abbondantemente approfondita, Le Symbolisme au théâtre resta a tutt’oggi il punto di 14 riferimento insuperato per chiunque desideri occuparsi di teatro simbolista . Tocca purtroppo constatare che un lavoro di ricostruzione storica di tale spessore documentativo non è più stato svolto dalla metà degli anni Cinquanta a oggi e si tratta evidentemente di una grossa lacuna per gli studi teatrali. Come avremo modo di vedere più dettagliatamente, il volume di Robichez può vantare un impegno nella ricerca senza precedenti per quanto concerne la storia dell’Œuvre e delle esperienze simboliste a esso parallele: lo studioso, lungi dall’appoggiarsi agli scritti di Lugné-Poe come fatto precedentemente dalla Jasper, ha interrogato archivi, fondi pubblici e privati, riviste francesi ed estere, carteggi tuttora per lo più inediti, materiale teatrale di vario tipo e documentazione personale dell’attore. Nonostante il rigore dell’opera tuttavia, la storia del teatro esigerebbe ancor oggi un aggiornamento che approfondisca e ricontestualizzi la documentazione di Robichez alla luce delle conoscenze acquisite dalla consapevolezza contemporanea, la cui prospettiva può indubbiamente guardare al capitolo simbolista con una cognizione sugli sviluppi scenici del Novecento che uno studioso della metà degli anni Cinquanta non poteva possedere, dando quindi tutt’altro peso a ciò che Robichez non esitò a definire l’échec simbolista. Le Symbolisme au théâtre è cronologicamente distinto in tre sezioni: la prima, Avant la fondation de l’Œuvre, si occupa degli anni che precedono la fondazione del teatro di Lugné-Poe (dal 1886 al 1893); la seconda, L’Œuvre Symboliste, del periodo simbolista di quest’ultimo (1893-1897); la terza, L’Œuvre Indépendante, del percorso successivo alla rottura col movimento, fino alla svolta del secolo (1897-1899). Robichez apre ciascuna delle tre parties con un inquadramento di carattere storico posto in relazione con le trasformazioni culturali che influirono tanto sulla formazione di Lugné-Poe, quanto sul suo milieu artistico. Prima di cominciare a occuparsi degli esordi di Lugné, lo studioso dedica un intero capitolo all’orizzonte teorico nel quale il simbolismo teatrale si sviluppa, ben più articolato di quanto non fosse quello tracciato dalla Jasper . Robichez affronta la dottrina wagneriana e la sua rielaborazione letteraria in Francia attraverso il pensiero di Baudelaire, Schuré, Dujardin e Wyzewa, per poi concludere immancabilmente con la critica mallarmiana e della sua scuola (Morice, Muhfeld, Kahn, Mockel). Sin da questo capitolo introduttivo la prospettiva dell’autore − destinata a influenzare pesantemente, vista l’importanza del suo lavoro, il modo in cui si guarderà al teatro simbolista da lì in avanti − appare molto chiara: si tratterebbe di un teatro che mira alla de-teatralizzazione, che vive nella costante antinomia dettata dal voler minare l’essenza della rappresentazione stessa. Emerge quindi quello che abbiamo precedentemente individuato come il nucleo problematico principale legato all’interpretazione di quest’esperienza scenica: la relazione fra la teoria e la messinscena. Se da una parte è innegabile che le teorizzazioni dei poeti mirino a privilegiare l’astrazione, la sintesi, lo splendore della Parola universale nella sua oscurità materiale – dall’altra non è corretto limitare l’analisi del fatto scenico all’ottica spesse volte utopica di letterati che parteciparono solo tangenzialmente all’attività teatrale nella sua fisicità. Certo non possiamo dar torto a Robichez, che parla di una «véritable offensive contre l’Acteur», quando leggiamo affermazioni come quella di Wyzewa: «Un drame, lu, paraîtra aux âmes delicate plus vivant que le même drame joué sur un théâtre par des acteurs vivants»; tuttavia non è nemmeno corretto affermare che Lugné-Poe − homme de théâtre, come lui stesso amava definirsi − «avait 16 accepté, pour complaire aux Symbolistes, de s’effacer, de se faire oublier» . Lo sforzo di Lugné andava piuttosto in direzione della ricerca di una nuova teatralità e non nella distruzione della stessa, tutt’al più in opposizione a un modello attoriale come quello classicista o naturalista ritenuto incapace di farsi portatore delle istanze richieste da una nuova drammaturgia. Nel ricostruire l’infanzia di Lugné-Poe e il periodo della sua formazione, Robichez – entrato anche lui in contatto diretto con Suzanne Desprès, oltre che con la sorella del direttore dell’Œuvre – tenta, dove possibile, di verificare prontamente le fonti di ogni informazione. Robichez dedica molto spazio alle esperienze compiute da Lugné prima della fondazione del teatro e che hanno inevitabilmente influenzato il suo lavoro al di là delle teorie simboliste: la collaborazione con gli Escholiers; quella con Antoine, da cui ha potuto apprendere una lezione di «simplicité» per la «diction et la mise en scène»; gli insegnamenti di Worms al Conservatorio e di Faguet al Condorcet; le amicizie particolarmente significative di Jean Jullien (fondatore nel 1889 della rivista «Art et Critique», cui inviterà lo stesso Lugné a collaborare), dell’anarchico Malaquin, del critico Baüer; la frequentazione dei Nabis, che sarà 17 giovane attore prende parte, è ricostruita con precisione, così come le sue sperimentazioni sceniche dagli esiti per lo più fallimentari: Robichez conclude che probabilmente il loro «seul mérite» è stato quello di «avoir engendré le Théâtre de l’Œuvre», guardando alla sua «histoire» come a un’esperienza «manquée mais 18 féconde» . Ed è certo vero, sebbene il giudizio tranchant dello studioso finisca col catalogare sotto l’egida della mediocrità messinscene che, quanto meno per i loro assunti sperimentali, varrebbe oggi la pena riconsiderare come feconde al di là dell’eredità che lasciarono all’Œuvre, che resta comunque indiscutibile: è sulla scena dell’Art che Lugné-Poe collabora con Maeterlinck per la prima volta ed elabora lo stile sonnambolico che lo renderà famoso raccogliendo i primi consensi, così come è sempre su quella scena che i Nabis potranno realizzare i loro primi décors e in particolar modo la reazione alla riappropriazione simbolista di Ibsen 20 Robichez è pienamente consapevole dell’importanza del repertorio scandinavo per Lugné e la storia dell’Œuvre («Lugné-Poe et Ibsen, Lugné-Poe et le théâtre, on va le voir, c’est la même chose»), tanto da aprire addirittura il suo precedente lavoro biografico sull’attore con un capitolo intitolato Norvège e da dedicare quattro capitoli 21 de Le symbolisme au théâtre a Le «grand Scandinave» Lugné-Poe . Lo studioso giustifica la scelta delle opere, esamina i loro accostamenti nei programmi delle stagioni, le pone in relazione all’attualità del pensiero mistico-anarchico francese, si occupa della loro messinscena (dalle traduzioni di Prozor alle conferenze preliminari, dal décor alla recitazione), per poi analizzare l’accoglienza della critica sia francese che scandinava nella sua evoluzione (dalla prima tournée del 1894 a quella del 1899) e le relazioni non sempre cordiali di Lugné con Strindberg, Bjørnson e Ibsen. L’Œuvre risulta quindi per Robichez primariamente Théâtre du Nord e solo in secondo luogo Théâtre International: il suo progetto – che fu già di Paul Fort – di portare in scena «les chefs-d’œuvre étrangers méconnus» si ridurrà di fatto a un numero ben limitato di rappresentazioni significative, due opere elisabettiane e due 22 come la poca fortuna delle tournées europee, sottolineando tuttavia la rivincita che Lugné potrà prendersi dal 1900 in poi. La rassegna degli spettacoli francesi rappresentati all’Œuvre viene affrontata ancora una volta nell’ottica dello scacco del simbolismo teatrale: Robichez ne traccia la storia stagione per stagione partendo dal presupposto che il movimento già dal 1894 poteva dirsi esaurito e quindi tacciando di anacronismo il tentativo di Lugné. La storia del suo teatro diventa quella di un uomo alla disperata ricerca del capolavoro nazionale che non riuscirà mai trovare se non con Claudel, quando ormai l’impresa simbolista potrà dirsi davvero conclusa . L’apice di questa catena di fallimenti è vista proprio nell’Ubu roi, spettacolo che garantirà di fatto la longevità dell’Œuvre nelle storie del teatro: l’autore, nella sua analisi, ne mette in evidenza il carattere parodico, lo spirito contestatario con cui deriderebbe i drammi simbolisti esigendo – al contrario di essi – la scena. È chiaro come, in questa prospettiva, l’Ubu finisca col risultare il sintomo del fallimento estremo del simbolismo teatrale; ma la rivoluzione portata dall’opera di Jarry non dovrebbe piuttosto essere letta come l’ultimo anello di una catena composta dai precedenti tentativi di rinnovamento scenico dell’Art e dell’Œuvre, foss’anche quello che l’ha spezzata per spalancare il sipario alle avanguardie del Novecento? Al di là dell’impostazione del lavoro, Robichez è ricercatore attento nel ricostruire, oltre agli spettacoli, anche la vita materiale dell’Œuvre: le sedi, i programmi, l’organizzazione, le questioni economiche, il pubblico, le relazioni con la stampa, la concorrenza. Nella terza parte del volume – dedicata ai tre anni successivi alla rottura ufficiale coi simbolisti, alla ricerca di Lugné di nuovi autori francesi e al suo rapporto in particolare con Bouhélier, Rolland e Faramond fino all’échec del giugno 1899 – troviamo addirittura un approfondimento sul Lugné giornalista, con un’attenta analisi 24 dei suoi articoli apparsi sulla «Presse» . Le symbolisme au théâtre si conclude riaffermando la contraddittorietà tanto di Lugné-Poe quanto dell’Œuvre, sintetizzando il suo percorso in un duplice processo di negazione del teatro negli anni simbolisti e di riaffermazione dello stesso a partire dall’87, per poi sottolinearne il ruolo fondamentale svolto nella diffusione delle opere straniere e in particolar modo scandinave in Francia. Fino agli anni Novanta non troviamo altre monografie particolarmente innovative 25 sul simbolismo scenico . Nel 1972, tuttavia, Umberto Artioli dedica all’argomento un capitolo del suo volume Teorie della scena dal Naturalismo al Surrealismo, le cui conclusioni sono indubbiamente significative per la recezione accademica della 26 influenze wagneriane e sulla nozione mallarmiana di «teatro mentale», Artioli guarda alla concretizzazione della poetica teatrale simbolista sulle scene del Théâtre d’Art e dell’Œuvre, sottolineando l’irrisolta contraddizione sottesa a entrambe le realtà 27 spettacolari . Se il teatro di Paul Fort risulta vittima di due tendenze inconciliabili – da una parte la spinta verso l’esaltazione di un’autonomia della Parola poetica e dall’altra l’ossessione per la sinestesia generata da un connubio fra correspondances baudelairiane e l’arte totale di Bayreuth –, quello di Lugné-Poe è parimenti penalizzato dall’incapacità dell’artista, dovuta certamente a una «non approfondita consapevolezza», di sfruttare scenicamente le sollecitazioni scritturali e visive che gli venivano dal campo pittorico, anche lui in qualche modo costretto nei limiti teorico- 28 di aver giocato un ruolo «non indifferente nell’affrancamento della scena europea dalle angustie della boîte» recuperando una dimensione sacrale all’avvenimento spettacolare, e al secondo quello di essersi fatto portavoce dell’esigenza di una riforma radicale del teatro che trova proprio nella rappresentazione dell’Ubu roi la sua 29 piùpotenteaffermazione . spettacoli, limitandosi a citarne semplicemente qualcuno a titolo esemplificativo – il suo contributo è fondamentale per una presa di coscienza del nodo problematico che 30 stringeteoriaeprassinell’esperienzasimbolista . Nel 1993 viene pubblicato il volume di Frantisek Deak, Symbolist theater. The formation of an Avant-Garde, che già dal sottotitolo si propone di affrontare l’esperienza simbolista francese da una nuova prospettiva, considerandola come la matrice delle 31 studi precedenti che riguarda proprio il rapporto fra simbolismo e modernismo: intento della sua opera, che egli stesso definisce «a very different book», è dunque quello di analizzare i drammi rappresentati fino al 1897 dal punto di vista degli sviluppi novecenteschi, riconsiderando il simbolismo teatrale «from specific methodological and conceptual perspectives relevant to the contemporary discourse 32 on modernism» . Oggetto del suo studio saranno quindi le performances che si tenterà di ricostruire – per quanto concesso dai materiali disponibili – nel loro contesto artistico e sociale: piuttosto però che provare a documentare «in an extensive way» gli spettacoli (come non leggere in questa dichiarazione una presa di distanza dal metodo di Robichez?), si cercherà invece di descriverne la struttura, la semantica e il significato in relazione alle avanguardie, senza tralasciare però l’importanza del testo (d’altra parte, «symbolist theater was invented by poets») e il rapporto con la 33 letteratura . Nonostante i propositi di Deak siano più che apprezzabili, si dovrà purtroppo constatare che finiscono col tradursi in un’ampia sezione introduttiva che, per definire una cornice concettuale, rischia più volte di allontanarsi dall’oggetto dello studio (individuato giustamente dallo stesso autore nella performance), e infine in un’analisi degli spettacoli dell’Art e dell’Œuvre che aggiunge di fatto troppo poco alla ricerca di Robichez, senza dare sufficientemente spazio – viste la premesse – al rapporto con gli sviluppi del Novecento. Hans-Thies Lehmann – sei anni dopo la pubblicazione di Deak − sottolineerà l’importanza dell’esperienza simbolista come preistoria del teatro post-drammatico cui il suo studio Postdramatisches Theater è 34 dedicato . Nonostante solo pochi paragrafi siano riferiti nello specifico all’argomento, l’innovazione scenica del simbolismo in rapporto a quella rivoluzione che − a partire dagli anni Sessanta − porterà il teatro a confrontarsi «with the question of possibilities beyond drama», viene messa a fuoco con più chiarezza: la sua «undramatic stasis», la tendenza all’utilizzo di forme monologiche, l’indipendenza della dimensione poetica del testo dalla scena – a sua volta vissuta come «an indipendent atmospheric poetry of space and light» − aprono la strada a una nuova disposizione teatrale in cui ogni componente diventa «letter in a poetic text» . Come conclude Lehmann, se si guarda al simbolismo dal punto di vista del teatro post- drammatico, appare evidente come quest’esperienza si sposti «from the periphery to 36 alla luce la necessità di rivalutare il movimento in relazione alle avanguardie sottolineando – prima ancora di Lehmann − la complessità dell’evento artistico, il suo dichiarato intento di un’analisi semiotica volta a ricostruire la struttura delle performances e il loro significato «in the turn-of-the-century discurse» non trova poi 37 effettiva applicazione . Oggi basterebbe davvero partire dai tratti che Lehmann individua come propri del post-drammatico – da un’estetica della non- gerarchizzazione al prevalere della presenza sulla rappresentazione, dalla sinestesia alla simultaneità dei segni − per rendersi conto di quanto il simbolismo ne sia stato il precursore e comprendere a pieno il suo valore avanguardistico. I primi tre capitoli di Symbolist theater di Deak sono dedicati a un inquadramento culturale del teatro di Fort e Lugné-Poe e, più specificatamente, a definire le teorie poetico-filosofiche e le esperienze sceniche che influiranno su di esso, rappresentandone in qualche modo le premesse. Il capitolo dedicato al teatro di Villiers de l’Isle-Adam – i cui «metaphysical melodramas» godranno di una fortuna senza pari fra i giovani simbolisti – è completo e degno di nota, così come i riferimenti alle performances poetiche nei salons e l’analisi delle messinscene della trilogia di Dujardin e delle opere di Péladan, entrambe contestualizzate nel più ampio 38 dibattito teorico su Wagner e la sua latinizzazione francese . Dispersive invece le sezioni dedicate e Baudelaire e Mallarmé: Deak si sofferma da una parte sulla non- teatralità dei tentativi drammaturgici (assolutamente irrilevanti) del primo e sulla conversione poetica di quelli del secondo, dall’altra sugli elementi di teatralità presenti 39 addirittura a un tentativo di ricostruzione di quella che avrebbe potuto essere, secondo le volontà del poeta, la performance legata alla lettura del famoso Livre che l’autore non realizzò mai, azzardando perfino pericolosi paralleli con lo strutturalismo di Barthes che ci portano evidentemente lontano dal nucleo d’interesse originario. Deak legge la volontà di Mallarmé che il Livre restasse anonimo e che il performer delle pubbliche letture cercasse di personalizzare l’interpretazione il meno 40 possibile, come un’anticipazione della teoria della morte dell’autore di Barthes . Certo il critico francese, nel sostituire il linguaggio «impersonale e anonimo» all’autore come «principio produttivo ed esplicativo della letteratura», si era rifatto anche alla rivendicazione mallarmiana della «scomparsa locutoria del poeta, che cede 41 lo scettro del potere al lettore perché potesse giungere all’elaborazione di un significato personale: al contrario, si trattava proprio di affermare la sacralità del testo con uno spirito da rituale religioso, perché l’uomo non potesse influire in alcun modo con la sua soggettività sull’universalità della Parola, della Poesia, di quel «cosmic drama» che si manifesterebbe tanto nell’astrattezza del personaggio quanto 42 teoria decostruttivista di Barthes che segna il passaggio a un post-strutturalismo basato sulla funzione del lettore (nel nostro caso spettatore) come colui che «tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito» . Se guardare al percorso che conduce da Mallarmé a Barthes in un’ottica di continuità è più che legittimo, bisogna fare invece molta attenzione nel compiere il cammino inverso senza rischiare di forzare il rapporto fra il simbolismo come anticipatore delle avanguardie e il complesso calderone post-moderno. Come ricorda Lehmann, «for all the similarities in expressive forms [...] one has to consider that the same means can radically change their meaning in different context», e non sarà certo necessario ricordare quanto la riflessione sessantottina di Barthes sia legata alla critica 44 dell’ideologia capitalista incarnata dall’auctoritas dell’autore-borghese . Mentre gli spettacoli del Théâtre d’Art vengono passati in rassegna cronologicamente, seguiti poi da un paragrafo dedicato a un’analisi degli elementi della messinscena (dal décor alla recitazione e al pubblico), quelli dell’Œuvre sono raggruppati in tre sezioni che corrispondono precisamente alla scansione elaborata da Robichez: opere scandinave, ricostruzioni e teatro straniero, repertorio francese. La rassegna, piuttosto rapida, si sofferma soprattutto sulla rappresentazione dell’Ubu roi, unico spettacolo ad essere posto più analiticamente in relazione con l’avanguardia, ed è facile comprenderne il perché. Se l’ultimo capitolo rischia ancora una volta di portarci fuori argomento soffermandosi su kaloprosopia e dandysmo in un discorso che concernerebbe più il decadentismo letterario che la pratica teatrale simbolista, vanno tuttavia sottolineati alcuni meriti dell’opera, per quanto rimasti in nuce: prima di tutto − come si è già detto − l’aver affermato l’importanza che il lavoro di Fort e Lugné-Poe ha avuto per il teatro del Novecento, indicando quindi una direzione nella ricerca che meriterebbe tuttora di essere seguita; in secondo luogo l’aver evidenziato un errore di prospettiva molto comune per cui si guarda al simbolismo in netta opposizione al naturalismo, concezione propria della modernità che finisce con l’ingabbiare entrambe le correnti artistiche in una serie di limitazioni tematiche e formali; infine, l’aver fatto riferimento in diverse occasioni al carattere liminare dei testi simbolisti così come delle loro rappresentazioni, introducendo un ulteriore livello di approfondimento che andrebbe a legarsi a uno studio antropologico che ancora non è stato svolto e che ritengo personalmente molto interessante per un teatro come quello simbolista, così connesso alla matrice religiosa-rituale. Deak ascrive la maggior parte dei drammi simbolisti al «genre» (definizione sulla quale ci sarebbe da obiettare) del «theater of initiation», distinguendovi due categorie: quelli in cui l’iniziazione del protagonista costituisce tematicamente il plot e quelli che rientrano invece nella definizione di «static drama», in cui «the hero is suspended between two states» e la staticità stessa 45 non trattandosi ancora di teatro post-drammatico, le trame – per quanto esili – nascondono sempre nella loro densità metaforica il compiersi di un rito di passaggio. L’indagine antropologica tuttavia non andrebbe limitata soltanto allo studio dei testi, ma potrebbe diventare chiave di lettura privilegiata per l’analisi delle rappresentazioni: mai come sui palchi dell’Art e dell’Œuvre, d’altra parte, ogni segno scenico aveva concorso a evocare il (pre)sentimento della soglia, di quel limen che – ricorda Turner – Van Gennep indicava come stato di «transizione fra», zona ambigua e a-temporale che segue alla separazione dal mondo di appartenenza e prelude 46 al cambiamento . È il cuore stesso della pratica teatrale a mettere a nudo l’esperienza dell’uomo sulla scena simbolista, e viceversa. L’ultima, recentissima pubblicazione sul nostro argomento è La Scène symboliste 47 (1890-1896). Pour un théâtre spectral di Mireille Losco-Lena, dell’aprile 2010 . Lo studio parte proprio dal riconoscimento del limite teorico del lavoro di Robichez: «Jacques Robichez y suit le point de vue rétrospectif de Lugné-Poe lui-même, au moment où il rompait avec le mouvement simboliste. [...] Pour Jacques Robichez comme pour 48 Lugné-Poe,cettefracassanteruptureestunaveud’échec» . Se è vero che l’Art e l’Œuvre non sono riusciti a realizzare tutte le aspettative dei poeti-teorici, hanno tuttavia perseguito una propria visione teatrale che la studiosa 49 visione, comprenderne la genesi e la declinazione nei diversi elementi della rappresentazione, l’obiettivo dichiarato dell’opera. Certo si tratta di un teatro che scelse di percorrere una via negativa, di passare dall’«incarnation» alla «disparition» − da cui la definizione della Losco-Lena di théâtre spectrale −, ma con un progetto di 50 rinnovamento scenico e non di negazione del teatrale . La stessa affermazione mallarmiana della superiorità del Livre può portare a un ripensamento della scena a partire dalla lettura che non implichi affatto il dimenticarla, ma piuttosto il tentarne una ri-creazione. Il libro della studiosa francese funziona perfettamente da premessa per il lavoro che oggi bisognerebbe svolgere e che però richiederebbe di essere applicato all’impianto strutturale-documentativo di un Robichez. Purtroppo il volume, nella sua brevità, si ferma volutamente in superficie, argomenta teoricamente i caratteri propri delle messinscene citando le rappresentazioni come esempi delle proprie argomentazioni, piuttosto che come punto di partenza. Dopo aver individuato i tratti di questa nuova teatralità in cui la scena viene accettata come «rielaborazione del lutto» e lo spettacolo si presenta sotto forma di visione interiore e «pretesto al sogno», la Losco-Lena ne analizza le declinazioni nei 51 tre campi del décor, della musica di scena e dello stile recitativo . Molto interessante, a proposito del primo ambito, la relazione sottolineata dall’autrice fra gli scenari dipinti dai Nabis e la pittura medievale, a partire dalla monocromia e dalla luce per arrivare alla ricerca di un’elevazione spirituale e alla gerarchizzazione-giustapposizione degli spazi. Il discorso meriterebbe in effetti di essere approfondito ampliandolo, come in parte viene proposto nel capitolo introduttivo, al rapporto fra le sacre rappresentazioni medievali e gli spettacoli simbolisti nel loro complesso: si tratta in entrambi i casi di drammi itinérants dove lo spazio diventa soglia, prefigurazione di 52 un «outre-monde», e l’attore si avvicina all’officiante se non addirittura all’icona . Questa prospettiva, di sicuro interesse considerata la più che nota attrazione dei simbolisti per il medioevo, potrebbe facilmente ricongiungersi allo studio di carattere antropologico precedentemente auspicato a proposito del carattere rituale-liminare di questa particolare drammaturgia. Il capitolo dedicato alla musica finisce col diventare un capitolo sull’estetica wagneriana e sul suo rovesciamento simbolista: il Gesamtkunstwerk interpretato come teoria generale della sinestesia, il leitmotiv musicale applicato alla scrittura poetica. D’altra parte – nota la Losco-Lena – dal punto di vista scenico non vennero compiute particolari rivoluzioni per quanto concerne la musica, e anzi si preferì assegnare molte delle sue funzioni principali al décor, lasciando che il silenzio assurgesse a un ruolo di primo piano dal punto di vista drammaturgico (Maeterlinck docet). Se può risultare interessante il riferimento alla collaborazione di Satie con Péladan per Les Fils des étoiles, lo è di fatto meno – ai fini del discorso – l’approfondimento sul Pelléas et Mélisande di Debussy, opera realizzata quando ormai 53 l’esperienza teatrale simbolista poteva dirsi conclusa . attoriale simbolista, si concentra soprattutto sulle tre figure principali di Camée, Mellot e Lugné-Poe. Ciò che c’interessa rilevare tuttavia, al di là delle differenze di stile e del distinguo particolarmente rilevante fra melopea e salmodia che l’autrice compie a proposito del fondatore dell’Œuvre, è la coscienza basilare che la Losco- Lena possiede di un presupposto ineludibile: parlare di attore simbolista significa rifarsi a una pura invenzione teorica, non ideata da uomini di teatro. E certo guardare alla storia dell’Art e ancora di più dell’Œuvre con questa consapevolezza cambia decisamente la prospettiva analitica. Lungi dal potersi considerare un lavoro esaustivo, il merito di quest’ultima pubblicazione è quello di aver messo in luce l’esigenza di rivalutare l’intera esperienza simbolista, affrancandola dall’annoso pregiudizio sulla sua anti-teatralità per riconoscerne al contrario i tentativi di sperimentazione scenica. Sarebbe un ottimo punto di partenza per riscrivere oggi questo capitolo teatrale spesso dimenticato che, al di là di studi aneddotici e superati come quello della Jasper o di tentativi poco innovativi nei risultati come quello di Deak, trova a tuttora – e, oserei dire, scandalosamente – il suo riferimento storico principale nel volume del ’57 di Robichez. Non resta d’augurarsi che la lacuna possa presto essere colmata da nuove ricerche che, sulla base di un aggiornamento della documentazione archivistica, siano in grado di assumersi il peso delle contraddizioni proprie di un teatro tanto ricco e complesso, indagando sulla relazione fra la teoria e la prassi, la poesia e la scena, il teatro e le altre forme d’arte, per metterne finalmente in evidenza la portata innovativa in relazione alla scena del Novecento e aprire parallelamente nuovi margini d’interpretazione. NOTE 1 Fra le altre produzioni legate al simbolismo teatrale, precedenti o parallele a quelle dell’Art e dell’Œuvre, ricordiamo le rappresentazioni del rosacrociano Péladan (1892-1893), l’Axel di Villiers de l’Isle-Adam messo in scena da Larochelle al Théâtre de la Rive Gauche (1894) e la Dame de la mer di Ibsen allestita da Lugné-Poe con il Cercle des Escholiers prima della fondazione dell’Œuvre. 2 La Parade: Souvenirs et impressions de théâtre, titolo delle memorie di Lugné-Poe, è composta da: Le Sot du tremplin (Gallimard, Parigi 1930), Acrobaties (1894-1902) (Ibi, 1931), Sous les étoiles (1902-1912) (Ibi, 1933), Dernière Pirouette (Sagittaire, Parigi 1946). Franco Perrelli, nel suo Echi nordici di grandi attori italiani (Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2004), ha messo in evidenza le imprecisioni più o meno gravi riportate da Lugné-Poe a proposito della tournée scandinava di Eleonora Duse, sottolineando tuttavia che la creatività della Parade emerge «con estrema onestà» dal «tono stesso della sua scrittura» (nota 54, p. 183). 3 G. R. JASPER, Adventure in the theatre. Lugné-Poe and the Théâtre de l’Œuvre to 1899, Rutgers University Press, New Brunswick (New Jersey), 1947. 4 Ivi, p. IX. Lo studio della Jasper si prolunga fino al 1899, ma in realtà già la rappresentazione dell’Ubu roi di Jarry (9-10 dicembre 1896) aveva segnato una frattura significativa che avrebbe aperto la strada alle avanguardie. Tuttavia la rottura “ufficiale” di Lugné-Poe con i simbolisti avvenne nel 1897: in seguito alla polemica che ebbe luogo a giugno sulle pagine del Figaro, l’attore-regista si rivolse ad autori distanti dal movimento, mettendo in scena nei due anni successivi opere di Rolland, Faramond e Saint-Georges de Bouhélier, caposcuola naturiste. 5 Lugné-Poe lasciò la direzione dell’Œuvre nel 1929, ma il suo ritiro dalle scene fu tutt’altro che definitivo: restò attivissimo su più fronti fino alla morte, avvenuta il 19 giugno 1940. 6 G. R. JASPER, Adventure in the theatre, cit., pp. IX e 247. 7 Pelléas et Mélisande venne rappresentato come matinée ai Bouffes-Parisiens il 17 maggio 1893. 8 CapitoloX:Memorableperformancesofearlyyears,pp.197-242.Glispettacolicitatisonostati rappresentati rispettivamente il 22 gennaio 1895 al Nouveau-Théâtre, l’11 febbraio 1896 alla Comédie-Parisienne, il 12 novembre 1896, il 10 dicembre 1896 e l’8 maggio 1897 tutti e tre al Nouveau-Théâtre. 9 Gli episodi citati si ritrovano in LUGNÉ-POE, La Parade, tomo II, cit., pp. 121-122 e 151- 152. Nel caso della rappresentazione de Le Chariot de terre cuite, Lugné-Poe racconta di come si siano resi conto all’ultimo momento di non aver acquistato un quantitativo di tessuto orientale sufficiente per rivestire tutte le comparse che dovevano prender parte alla grande scena di massa. Dovettero accontentarsi allora di creare con quella stoffa dei turbanti e di ricoprire le comparse il minimo indispensabile con della corda recuperata nel backstage, lasciando tuttavia al pubblico «the general and impelling impression [...] of nudism» (G. R. Jasper, Adventure in the theatre, cit., p. 202). Per la Salomé invece, Lugné-Poe si era fatto prestare dal direttore del Musée Grévin la riproduzione molto realistica di una testa umana perché rappresentasse in scena quella di Giovanni. La testa finì tuttavia col cadere per terra e rompersi in mille pezzi durante la prova generale, costringendo Lugné-Poe a risarcire economicamente il museo. 10 Capitolo VIII: Scandinavian Dramatists: Discovery, pp. 153-177; capitolo IX: Scandinavian Dramatists: Approval, pp. 178-196. 11 «Of fourteen Ibsen plays produced in France starting with the performance of Ghosts in 1890, Lugné-Poe was responsible for nine, the first being the Escholiers’ performance of The Lady from the Sea» (G. R. JASPER, Adventure in the theatre, p. 189). 12 Ivi, p. 270. 13 J. ROBICHEZ, Le symbolisme au théâtre. Lugné-Poe et les débuts de l’Œuvre, L’Arche, Paris 1957. 14 J. ROBICHEZ, Lugné-Poe, L’Arche, Paris 1955. 15 Capitolo I: Les théories, pp. 24-51. 16 J. ROBICHEZ, Le symbolisme au théâtre, p. 37; T. DE WYZEWA, Nos Maîtres, in La Revue wagnérienne, 8 maggio 1886, p. 18; J. ROBICHEZ, Lugné-Poe, p. 73. 17 J. ROBICHEZ, Le symbolisme au théâtre, p. 61. A proposito dei Nabis, si ricorda che, fra l’altro, il pittore Vuillard fu co-fondatore dell’Œuvre assieme a Lugné-Poe e Mauclair. 18 Ivi, p. 141. 19 Lugné-Poe prese parte ad entrambi gli spettacoli di Maeterlinck rappresentati al Théâtre d’Art: L’Intruse (21 maggio 1891) e Les Aveugles (11 dicembre 1891). 20 Tanto i souvenirs di Lugné-Poe quanto le relazioni e gli articoli sulle tournée scandinave dell’Œuvre pubblicate in Francia sono molto poco attendibili e del tutto insufficienti a riguardo dei punti elencati. 21 J. ROBICHEZ, Lugné-Poe, p. 27. I quattro capitoli dedicati al repertorio scandinavo dell’Œuvre ne Le symbolisme au théâtre sono il IX, X, XI (pp. 202-292) e XVIII (pp. 425-446), quest’ultimo dal titolo Le «grand Scandinave» Lugné-Poe. 22 Capitolo XII: Les chefs-d’Œuvre étrangers méconnus (pp. 292-316). Il progetto è esposto nel manifesto della terza stagione, conservato nel Fondo Rondel alla BNF e riportato in LUGNÉ- POE, La Parade, tomo II, pp. 140-141. Le opere cui si fa riferimento sono: Annabella di John Ford (tradotta e adattata da Maeterlinck), Venise sauvée di Thomas Otway, Le Chariot de Terre cuite e L’Anneau de Sakuntala del poeta indiano Kalidasa, rappresentati rispettivamente il 6 novembre 1894, l’8 novembre 1895, il 22 gennaio 1895 e il 10 dicembre 1895. 23 L'Annonce faite à Marie sarà portato in scena per la prima volta proprio da Lugné-Poe il 22 dicembre 1912. 24 Lugné-Poe vi terrà la rubrica Opinions a partire dal 12 aprile 1897 fino al 16 maggio 1898, pubblicandovi una cinquantina di articoli. Il 21 giugno 1899 l’Œuvre chiude (momentaneamente) i battenti con Le Triomphe de la Raison di Rolland. 25 Nel 1978 esce l’unica monografia italiana dedicata in modo organico agli spettacoli del Théâtre d’Art e dell’Œuvre, Il teatro simbolista in Francia (1890-1896) di Mariangela Mazzocchi Doglio (Edizioni Abete, Roma 1978, «L’evento teatrale»), che resta tuttavia debitrice del lavoro di ricerca di Robichez. Ricordiamo inoltre il capitolo dell’opera di Bettina L. Knapp (The Reign of the Theatrical Director. French Theatre: 1887-1924, The Whitston Publishing Company, Troy – New York 1988) dedicato al Théâtre de l’Œuvre e al suo fondatore: il volume − che isola le tre esperienze significative di Antoine, Lugné-Poe e Copeau – si ferma sempre in superficie rispetto alle problematiche sollevate dal simbolismo teatrale, attenendosi principalmente alle fonti più aneddotiche e in particolare al libro della Jaspers. 26 U. ARTIOLI, Teorie della scena dal Naturalismo al Surrealismo, vol. I (Dai Meininger a Craig), G. C. Sansoni Editore, Firenze 1972 (Facoltà di Magistero dell’Università di Padova, XV). Il capitolo dedicato al teatro simbolista è il IV, La tentazione letteraria (pp. 157-191). 27 Ivi, p. 161. 28 Ivi, p. 184. 29 Ivi, p. 179. 32 Ivi, p. 6. 1999; la traduzione inglese da noi consultata, a. c. di K. Jürs-Munby, è stata pubblicata col titolo Postdramatic Theatre dall’editrice Routledge (Abingdon, Oxon – UK, 2006). 35 Ivi, pp. 26, 57, 59 e 58. Adam (pp. 31-57). Si tratta invece delle performances poetiche nel capitolo I, Symbolists and the Nineteenth-Century Theater (pp. 13-30: alle pp. 25-29); del wagnerismo nel capitolo IV, Richard Wagner and the French Symbolists (pp. 59-94). La citata trilogia di Dujardin è ovviamente la La Légende d'Antonia, le cui tre parti furono rappresentate il 20 aprile 1891 (Antonia), il 17 giugno 1892 (Le Chevalier du Passé) e il 14 giugno 1893 (La Fin d’Antonia). Il riferimento alla latinizzazione di Wagner deriva da un’espressione di Péladan, che affermò la necessità che la poetica del compositore fosse «latinisè» dai letterati francesi (in De l’interprétation Wagnérienne à Baireuth et à Paris, «La Grande Revue», 1 agosto 1902, p. 461). 39 Cfr. su Baudelaire cap. I (pp. 16-22), su Mallarmé cap. III: Mallarmé’s Conceptual Theater (pp. 58-93). 40 R. BARTHES, La mort de l’auteur (1968), in ID., Le bruissement de la langue, Éd. du Seuil, Parigi 1984. 41 A. COMPAGNON, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000 (Piccola Biblioteca Einaudi. Saggistica letteraria e linguistica, 57), p. 47; S. MALLARMÉ, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1945, p. 366. 42 F. DEAK, Symbolist Theater, cit., p. 83. 43 R. BARTHES, La mort de l’auteur, cit., p. 67. 44 H.-T. LEHMANN, Postdramatic Theatre, cit., p. 23. 45 F. DEAK, Symbolist Theater, cit., p. 128. 46 V. TURNER, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986 (Intersezioni, 27), p. 81. La definizione di limen citata da Turner si trova in A. VAN GENNEP, Les rites de passage, Émile Nourry, Parigi 1909. 47 M. LOSCO-LENA, La Scène symboliste (1890-1896). Pour un théâtre spectral, Ellug, Grenoble 2010. Ricordiamo che nel 2005, prima della pubblicazione della Losco-Lena, il Musée d’Orsay ha dedicato una mostra al teatro di Lugné-Poe, dal titolo Le théâtre de l’Œuvre 1893- 1900. Naissance du théâtre moderne. L’exposition, realizzata in collaborazione con la Bibliothèque Nationale de France e la Société des auteurs et compositeurs dramatiques (SACD), è stata accompagnata da un bel catalogo edito dalla 5 Continents Éditions (Milano 2005) che merita di essere menzionato in questa sede per l’interesse dei suoi contribuiti critici, in particolar modo per quanto concerne il rapporto fra la scena simbolista e i Nabis: vi troviamo, dopo un’introduzione del presidente del museo d’Orsay Serge Lemoine volta a sottolineare l’importanza dell’Œuvre come motore di rinnovamento teatrale, un contributo di Isabelle Cahn, Lugné-Poe et l’Œuvre, che ripercorre la storia di questo teatro fino al 1899, soffermandosi sulle innovazioni sceniche; un saggio di Antoine Terrasse, Petite chronique de grandes rencontres, sulla collaborazione di Lugné coi Nabis; un saggio di Guy Cogeval dedicato a Vuillard et le théâtre: la peinture à l’œuvre; uno studio di Geneviève Aitken sui programmi litografati come documento storico e allo stesso tempo opera d’arte; un contributo di Armen Godel sul repertorio straniero dell’Œuvre (L’Œuvre cosmopolite, un répertoire universel); un saggio di Philippe Cathé sulle rappresentazioni dell’Ubu roi; infine un contributo di Florence Roth, direttore della SACD, sul cospicuo materiale presente nella loro biblioteca su Lugné-Poe e l’Œuvre. 48 M. LOSCO-LENA, La Scène simboliste, pp. 7-8.
49 Ivi, p. 12. 50 Ibid. 51 Ivi, p. 29. L’espressione «prétexte au rêve» è di Quillard (De l’inutilité absolue de la mise en scène exacte, in «La Revue d’art dramatique», 1 maggio 1891, p. 182). 52 Ivi, p. 16. 53 L’opera sarà messa in scena per la prima volta nel 1902 all’Opéra Comique di Parigi. |
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