Home page‎ > ‎Arti e Letteratura‎ > ‎

Salvemini

Cocò all’Università di Napoli

 

Gli adolescenti che, dopo aver fatto il liceo in una città del Napoletano, lasciano la famiglia per andare ad addottorarsi all’Università di Napoli, sono forniti assai di rado di una perfetta e solida coscienza morale. Ma anche nei peggiori non mancano mai grandi capacità di bene.
E basta che un giovane meridionale abbia la fortuna di trovarsi sbalzato fra i diciotto e i ventidue anni in un centro di lavoro onesto, in una scuola universitaria seria e sana, perché in lui – fornito quasi sempre di un’intuizione rapidissima, di un forte amor proprio, di facile adattabilità all’ambiente – si determini subito una grande crisi di rinnovamento e di epurazione. E da queste crisi nascono prodotti talvolta mirabili per raffinatezza e per forza, ma non mai inferiori a quella che è la media intellettuale e morale dei giovani del Settentrione.
La più parte dei meridionali, invece va a finire a Napoli. E Napoli è la piaga del Mezzogiorno, come Roma è la piaga di tutta l’Italia.
Nelle città universitarie del Nord non mancano, certo, occasioni di sviarsi al giovane, sfuggito appena dalla costrizione della famiglia e della scuola secondaria, e avido di bere a grandi sorsi la coppa della libertà. Ma una grande ondata di lavoro affannoso travolge tutto, compensa ogni male, purifica tutto. E il giovane si sente come soggiogato da un comando universale, perenne, che lo spinge alla fatica e lo consiglia a farsi avanti, ad affermarsi conquistatore di quelle forze di vita che lo dominano e lo affascinano.
Napoli invece, vasto centro di consumi e di attività improduttive, in cui metà della popolazione campa borseggiando e truffando l’altra metà, sembra fatta a posta per incoraggiare alla poltroneria e per educare alla immoralità. Tutto è chiasso, tutto è dolce far niente, quando non è imbroglio e abilità. Dal lazzarone che si spidocchia al sole, all’alto magistrato, di cui tutti sottovoce dicono che vende le sentenze; dal questurino, che sfrutta le prostitute, al giornalista ricattatore che sfoggia sfacciato automobili e amanti; tutto sembra che consigli al giovane: “Arrangiati, che io m’arrangio: l’onestà e il lavoro sono buoni per gli sciocchi: godere è lo scopo della vita”. Nessuna voce grida alla sua coscienza inquieta e vacillante: “Su via figliolo: lavora per te e per gli altri: il lavoro è la gioia, il lavoro è la libertà”.
Dopo qualche mese di tirocinio in quell’ambiente pestifero e infetto, la giovane speranza della giovane delinquenza borghese meridionale ha scelta per sempre la sua strada. Non è più il ragazzone di facile contentatura, timido e impacciato di una volta. È diventato un elegantone: si pettina e si veste in modo da stare tra il cinedo
e il guappo. Si è emancipato da ogni principio morale. Fa la corte alla figlia della padrona di casa. Abbraccia la serva in cucina e la portinaia per le scale. Molto spesso si busca la sifilide. Non c’è denaro che gli basti. E tempesta per averne la mamma e le sorelle di lettere menzognere e minacciose: – povere mamme, che si consumano nella lotta ineguale contro le ristrettezze del bilancio; povere sorelle, che sfioriscono nell’ombra nutrendosi di legumi e rattoppando i calzerotti per il fratello lontano!
Qualche volta Cocò si ricorda di essere anche studente universitario: quando c’è da fare una chiassata. Cocò è quasi sempre anticlericale: quando viveva Giovanni Bovio
non mancava mai d’andare ad ascoltarlo e di applaudirlo almeno una volta all’anno. Spesso Cocò è addirittura sindacalista o socialista rivoluzionario: è insuperabile nel rompere le vetrate, nel fracassare le panche, nel fare con la bocca e con la mano suoni non perfettamente musicali. Cocò può essere rivoluzionario tanto più agevolmente, in quanto è sicuro a priori dell’impunità qualunque birbonata faccia: i carabinieri, che moschettano per dei nonnulla i contadini affamati, non daranno mai noia al caro figlio di papà. E Cocò è sicuro a tutte le ore di trovare all’Università qualche migliaio di mascalzoni simili a lui, protetti dall’impunità come lui, pronti sempre a fare come lui i rivoluzionari. Oggi le panche saranno rotte per protestare contro il governo, domani per anticipare le vacanze, dopo le vacanze per ottenere una riduzione di tariffe sui trams e poi per conquistare gli esami di marzo, poi per solidarietà ai colleghi bocciati; e avanti, avanti, avanti, con la fiaccola impugno e con la scure.
Di tanto in tanto lo spirito di Cocò è turbato dallo spettro degli esami. Ma solo alla morte non c’è rimedio! Una Università in cui 5000 alunni fanno ogni anno, nelle sole sessioni di estate e di autunno, senza contare quella abusiva di marzo, 17000 esami, non può cercare troppo il pelo nell’uovo in questo genere di operazioni. Eppoi parecchi professori ufficiali esercitano anche libere docenze; iscrivendosi al loro corso libero, l’elegantone laureato si garantisce abbastanza bene contro i rischi di quegli esami che dipendono da quei professori. Altri professori ufficiali sono investiti di incarichi in materie non obbligatorie, che apparirebbero inutili qualora non vi si iscrivesse un numero sufficiente di volonterosi. Cocò si iscrive anche a questi corsi, e si assicura altri esami. Parecchi professori ufficiali, specialmente delle facoltà di giurisprudenza e di medicina, sono avvocati, o esercitano la professione, o fanno gli affaristi: è facile, quindi, trovare il magistrato, il banchiere, l’elettore influente, il cliente danaroso, il socio d’affari, che con una raccomandazione metta a posto qualche altro esame. Poi ci sono i professori indulgenti per natura, o vecchi rimbecilliti, che non bocciano, mai, mai, mai.
Non manca a Cocò che incontrare nell’Università di Napoli uno dei trecentocinquanta liberi docenti, imbroglione e pasticcione, camorrista e intrigante, che sa aiutare nei momenti difficili i poveri giovani bisognosi di soccorso. Basta dare la firma ad uno di costoro, lasciandogli godere tutte le dodici lire e centesimi dell’indennità e non pretendendo il rimborso immediato di una parte delle dodici lire, come molti fanno, e la gratitudine e la protezione del libero docente è assicurata in tutti le commissioni d’esame di cui egli farà parte.
Ed ecco come l’Università di Napoli sforna ogni anno circa 600 fra medici e avvocati e una sessantina fra professori di lettere e di scienze, dei quali la più parte non è assolutamente capace di scrivere dieci righe senza almeno dieci errori di grammatica ed è intellettualmente abbruttita e moralmente disfatta. Questa vergogna non è peculiare dell’Università di Napoli. Tutte le università italiane sono più o meno ammalate: ed in fatto di corsi liberi, per esempio, gli abusi che si commettono dai professori universitari a Palermo, a Torino, a Padova, sono forse superiori a quelli di Napoli.
Ma è innegabile che nell’insieme l’Università di Napoli è quella che accentra in sé il minor bene e il maggior male; che mentre nelle altre università prevalgono fra i professori ufficiali in proporzioni più o meno forti gli scienziati sugli affaristi, nell’Università di Napoli prevalgono gli affaristi sugli scienziati.
Cocò, tornato a casa analfabeta e laureato, si avvede ben presto di essere inetto a vincere un concorso per la magistratura i per le prefetture o per i ministeri, se è avvocato; è sistematicamente bocciato nei concorsi per le scuole medie, se professore; non ha nessun titolo di capacità per ottenere una condotta fuori del paese natio, se è medico.
E nella casa paterna lo aspettano sospirando la mamma invecchiata e le sorelle avvizzite. E qui, impotente a vivere coi frutti della professione libera, privo com’è di una qualunque abilità tecnica, tenta di assicurarsi un reddito, anche minimo, con un impiego municipale. Dove il partito dominante è solido e potente, Cocò gli striscia umile ai piedi e gli chiede un tozzo di pane. Dove esiste un’opposizione abbastanza forte o la maggioranza non si affretta a riconoscere i meriti e i diritti del neolaureato, costui si mette all’opposizione e combatte la maggioranza nell’interesse della patria. E allora si vede Cocò, anticlericale fierissimo all’Università, iscriversi a una confraternita
e tenere il baldacchino dietro al Vescovo nelle processioni; il socialista rivoluzionario diventa a un tratto intimo col maresciallo dei carabinieri; e chi applaudiva Giovanni Bovio, falsifica le bollette del dazio consumo e ruba i denari della beneficenza.

In tutto questo processo patologico una parte grandissima di responsabilità tocca ai professori dell’Università di Napoli. I quali finora sono venuti meno quasi del tutto al loro dovere di far servire l’Università a selezionare intellettualmente e moralmente, senza debolezze e senza colpevoli pietà, la borghesia meridionale; lasciandola funzionare come una scuola superiore di mala vita, hanno contribuito poderosamente a rendere impossibile nelle classi dirigenti del Napoletano ogni iniziativa illuminata e benefica, a dissipare in essere ogni coscienza di dovere e di solidarietà sociale, a distruggere nel Mezzogiorno ogni capacità di vita locale energica e sana.

(G. Salvemini)

 

 Home page‎ > ‎Arti & Letteratura‎ >