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Radiodocumentario

Cenni storici sul documentario radiofonico in Italia di Andrea Amato

© Andrea Amato (2005)

Premessa

Il documentario radiofonico come genere corrente, non più vincolato all’esperienza di ristrette avanguardie, non più confinato a settori marginali del palinsesto, nasce alla fine degli anni Trenta, in particolare nei paesi di lingua inglese1,

spiega Peppino Ortoleva nel suo intervento a un convegno del Prix Italia del 1996. Lo stesso Ortoleva aggiunge, nel medesimo contributo, che

Il documentario radiofonico italiano nasce, al di là del lavoro di “precursori” forse più mitizzati del necessario (Amerigo Gomez, Pia Moretti), nel 1947 con gli esperimenti in primo luogo di Aldo Salvo2.

Nel corso dello stesso simposio, lo storico della radio Gianni Isola sostiene che si deve

All’improvvisazione e all’entusiasmo di alcuni giovani neofiti come Gigi Michelotti e Lina Artuffo, se 
possiamo indicare nella rubrica Voci del Mondo (1932), quindi nell’attività di un gruppo di inviati come

3 Pia Moretti e Vittorio Veltroni (1937), la nascita del moderno documentario radiofonico italiano .

Sebbene i due studiosi si riferiscano ad una radice comune, il giovane gruppo giornalistico dell’Eiar4 fascista di cui Moretti, Veltroni e Gomez facevano parte, non c’è concordanza su una data o un’opera che possano essere presi come momento di nascita del genere del documentario radiofonico in Italia. Gli autori dei vari testi di storia della radio, che trattano spesso in modo marginale il genere in questione, non si pronunciano e finiscono per confermare questa indeterminatezza: l’impossibilità, cioè, di stabilire un punto d’inizio. Se è dunque accettato Weekend” di Walter Ruttmann [ascolta Weekend (1928)] come primo prodotto della macro-area del documentario radiofonico a livello internazionale, non si trova un’opera omologa nella storiografia della radio italiana.

E’ lo stesso Isola che conferma come

Non sia facile orientarsi nell’ancor modesta produzione storiografica sulle vicende della radio italiana, alla ricerca di questo o di quel programma, di questo o di quel “genere”; la predominante attenzione per le vicende politiche dell’azienda o per l’uso propagandistico dello strumento da parte del potere politico si è tanto largamente affermato, da tralasciare spesso di considerare la complessa architettura del

5 palinsesto in rapporto al carattere o alla diffusione dell’ascolto .

Partiamo quindi dalle parole di Ortoleva e Isola per tentare di tracciare una breve storia del documentario in Italia, soffermandoci su alcune tappe fondamentali di questo percorso.

1. I precursori e la radio fascista

Possiamo sostenere che a monte della nascita del genere del documentario radiofonico italiano ci sia il giornalismo parlato delle radiocronache dell’Eiar in periodo fascista.
Nonostante l’Annuario dell’Eiar definiva nel 1929 la radio come “il mezzo più potente di cultura, di moralizzazione e di diletto”
6, gli storici sono concordi nell’affermare che il fascismo arrivò

Con grande ritardo a comprendere la capacità propagandistica del mezzo radiofonico, soprattutto rispetto alle altre nazioni industrializzate. Ci erano voluti dieci anni quasi di trasmissioni, un viaggio di Galeazzo Ciano nella Germania nazista e la ristrutturazione di tutto l’apparato propagandistico con la creazione del nucleo del futuro Ministero della Cultura popolare per convincere il regime delle

7 possibilità di un uso programmatico e capillare della radio per la ricerca del “consenso” .

Il rapporto tra la radio ed il regime fascista iniziò ad apparire più stretto a partire dagli anni ’30, per consolidarsi in maniera sempre più indissolubile con il passare del tempo.
Il problema più urgente, sotto il profilo espressivo e dei contenuti, era quello di creare una nuova classe di radiocronisti che fossero capaci di attirare l’attenzione degli ascoltatori, muovere i loro animi durante l’ascolto delle cronache degli eventi concernenti il regime, che sapessero narrare le imprese del popolo fascista sia in guerra che nella vita quotidiana, e che fossero in grado di celebrare la società fascista. A questo proposito venne creato a Roma nel 1937 il Centro di preparazione radiofonica che, sotto il controllo del Ministero dell’Educazione e del CNR, era destinato a formare le nuove leve del personale con compiti autoriali e comunicativi dell’emittente radiofonica nazionale: radiocronisti, annunciatori, fonomontatori, registi ed attori. Il centro, diretto dal giornalista Franco Cremascoli – una delle voci più celebri della radio durante il periodo fascista – fu istituito sulla scorta del Centro sperimentale di cinematografia di Cinecittà, in un progetto congiunto volto all’individuazione di nuovi talenti che andassero ad arricchire le fila di quegli autori che sarebbero stati artefici della nascita della cultura di massa. La scuola ebbe in realtà vita breve, chiuse i battenti nel 1943 per non riaprirli alla conclusione della guerra, ma l’unico corso tenuto in quel lasso di tempo diplomò personaggi destinati ad avere ruoli di grande rilievo nell’etere italiano degli anni seguenti,

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compresi quei Vittorio Veltroni e Pia Moretti che abbiamo incontrato nella premessa a questo capitolo . Essi vennero

presto assunti ai microfoni dell’Eiar, e andarono a costituire il nocciolo duro del gruppo di redattori di un programma che è possibile considerare come il vero “antenato” delle prime forme del maturo documentario italiano: “Voci del mondo”, una rubrica di attualità in onda dal 1931. La trasmissione, interrotta nel periodo di belligeranza, fu riproposta dal 1949 sotto la direzione di Veltroni – allora a capo della redazione radiocronache – e con l’importante presenza della Moretti e di Luca Di Schiena, altro giornalista che sarà, negli anni ’50, tra le fila dei grandi documentaristi italiani.

Trasmesso ogni domenica alle 20.30, il programma del Giornale Radio si proponeva di allargare la fascia d’ascolto attorno all’approfondimento dei fatti internazionali, toccando svariati temi (politica, cronaca, sport, costume, spettacolo). Servizi, interviste e documentari beneficiavano di una agile montaggio [...]. Gli argomenti trattati [...] erano impaginati in modo da dare al programma la struttura

9 di un vero e proprio rotocalco sonoro d’attualità .

Lo stesso Franco Cremascoli ha raccolto e trascritto nel 1942 alcuni esempi di questi lavori che possiamo situare in una zona mista che sta tra il servizio di cronaca ed il primo, rudimentale, documentario. Pia Moretti, ricordata anche come la prima radiocronista nella storia della radiofonia europea, si reca a Firenze nella basilica di Santa Croce e realizza un prodotto dal taglio più poetico che giornalistico, in cui alla descrizione si uniscono storia e propaganda fascista. Con il suo proto-documentario la Moretti intende esaltare i caduti della rivoluzione fascista grazie alla creazione di un legame tra le loro spoglie e le “urne dei forti” di foscoliana memoria.

(Suono di campane a stormo che restano un attimo in primo piano, indi sfumano spegnendosi sotto le prime parole della radiocronista.)
PIA MORETTI: Si entra in Santa Croce sapendo di penetrare nella suprema poesia della Morte; poiché è poesia quella che anima il silenzio delle Urne, quella che varca i confini della materia per entrare nella religione dell’“al di là”. La vasta ombra gotica della chiesa silente abbraccia estatica il nulla e l’infinito di questo mistero solenne, mentre il sommesso mormorato rimpianto dei devoti strappa, intorno ai sepolcri, il velo della dimenticanza, sì che, per dirla col Pindemonte: «unite e in amistà congiunte non fur la vita mai tanto e la morte».

(Entra leggerissimo il suono dell’organo che resta in sottofondo.)
P.M.: Dalle vetrate snellissime, accese di calda policromia, cui l’acuto degli archi pone un incontenibile stimolo ascensionale, accende una luce di fiamma che dilaga per la vastità dell’edificio francescano, quasi ad incorporare ogni giorno di nuova gloria la “urne dei forti”.
(
Pausa.)
P.M.: Anche il canto dell’organo gigantesco si espande solenne, rispondendosi armonioso dall’un lato e dall’altro delle navate, animando i volti marmorei dei monumenti, componendo quasi la staticità dei nomi che balzano dalle epigrafi vivi, come percorsi da nuova linfa.
(
Viene in primo piano l’organo che sale in un finale pieno e solenne. Un attimo di silenzio. Entra in sfumatura la voce del cicerone; che spiega ai turisti i particolari della chiesa; avvicinandosi al microfono resta un momento in primo piano.)
CICERONE: Questa chiesa, costruita nel 1228 dai francescani ed ampliata più tardi, ha la forma di una croce egiziana. Nelle due navate laterali e nelle crociere stanno i più insigni monumenti...
(
Sulle ultime parole in dissolvenza del cicerone si sovrappone in primo piano la voce della radiocronista.)
P.M.: Il cicerone accompagna i visitatori tra la ricchezza austera delle opere d’arte, tra un rincorrersi alterno di affreschi e di sculture di altissimo pregio.
[...]
P.M.: Accanto ai Grandi che hanno onorato l’Italia, sta l’umile Fante, o il Milite, o il Legionario che l’ha difesa e l’ha rinnovata. Non esiste oblio per chi conosce la religione della patria dell’amore e della morte. Ben dice il poeta di Santa Croce: «A egregie cose il forte animo accendono / le urne de’ forti / o Pindemonte, e bella / e santa fanno al peregrin la terra / che le ricetta...»
VOCE: (
Dal secondo piano.) Nino Bolaffi!
(
Scatto sull’attenti di una sentinella.)
VOCE: Guido Fiorini!
(
Scatto sull’attenti di un’altra sentinella.)
VOCE: Giovanni Berta!
(
Scatto.)

(La voce chiama altri tre nomi: Annibale Foscari, Carlo Menabuoni, Gustavo Mariani, cui rispondono altri scatti sull’attenti. La voce e il suono si perdono lentamente nel nulla. Non è ancora terminata tale dissolvenza, che si alza da lontano il rintocco del campanone. Viene in primo piano e rimane durante quattro rintocchi sonori e gravi. Lenta dissolvenza10).

Il lavoro della Moretti è già tecnicamente elaborato, grazie al montaggio delle parti parlate con i rumori ambientali tipici di un luogo di culto. Possiamo inoltre apprezzare la presenza di dissolvenze ed assolvenze di voci ed elementi sonori elaborati in fase di sonorizzazione. Non bisogna dimenticare che chi si è cimentato con il genere documentario, inizialmente, ha dovuto scontrarsi con innumerevoli problemi dal punto di vista tecnico: le prime tecniche di registrazione e manipolazione di materiali sonori si resero disponibili, per le stazioni radiofoniche, fin dai tardi anni ’20, ma si trattava di processi particolarmente complessi e costosi. Non a caso per la realizzazione di “Weekend” Ruttmann utilizzò la colonna ottica: un procedimento basato sulla registrazione delle onde sonore sulla pellicola cinematografica, e per lo stesso motivo le prime trasmissioni erano per lo più in diretta e non venivano registrate a futura memoria. Un importantissimo passo avanti fu compiuto con l’arrivo della registrazione audiomagnetica, che permetteva l’introduzione di vere e proprie forme di montaggio, lanciando di fatto il genere del documentario. I primi sistemi di registrazione su nastro magnetico furono messi a punto dalla tedesca BASF nel 1934: si trattava di nastri con base di plastica che, utilizzati sugli apparecchi di registrazione “Magnetophone” della AEG, assicuravano

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registrazioni di buona qualità, pari a quella delle radiocronache trasmesse in diretta . I nuovi mezzi faticarono, però,

ad imporsi nelle radio europee ed americane per il costo elevato necessario per l’acquisto e la manutenzione e per le loro grandi dimensioni, che li rendevano macchinari difficili da spostare sul terreno, se non proprio inamovibili.
E’ ormai un dato di fatto che

Tutte le maggiori guerre del XX secolo hanno favorito l’innovazione tecnologica nel campo dei media, e sono state a loro volta condizionate dai mutamenti nel modi del comunicare12,

infatti il regime nazionalsocialista fece pressione sulle industrie tedesche affinché sviluppassero mezzi di registrazione sempre più leggeri, maneggevoli ed economici, intuendo che sarebbero risultati ampiamente utili come armi strategiche nella battaglia della propaganda che aveva luogo parallelamente alla battaglia delle armi “convenzionali”, durante la seconda guerra mondiale. Già nel corso della guerra, anche in Italia, si cominciò ad utilizzare strumenti dalla maggiore agilità, che permettevano ai giornalisti inviati dal regime fascista di raccontare con servizi e forme documentarie rudimentali sia i teatri di guerra, che la vita di tutti i giorni degli italiani in patria, naturalmente secondo l’ottica del regime.

Vittorio Veltroni, famoso per i suoi réportage di guerra, confeziona grazie ad uno di questi mezzi un servizio dalle zone dell’Agro Pontino bonificate per volere di Mussolini e ripopolate grazie al trasferimento nell’area di contadini del Triveneto che vivevano nella terra d’origine in stato di indigenza. Nel brano che Cremascoli riporta, possiamo riconoscere facilmente lo stile tipico della radiocronaca, qui applicato ad una trasmissione che però si costruisce sul montaggio.

(Il microfono è sull’aia di un podere nell’Agro redento.)
VITTORIO VELTRONI: Da Littoria, la nuova città che ferve di vita nuova, ci siamo avviati per le strade diritte, assolate e linde che tagliano in armonia la bella piana rifiorente di vita. Le casette coloniche si allineano in lunga, ordinata teoria ai bordi della via maestra. Portano nomi epici questi borghi: Borgo Montello, Borgo Isonzo, Borgo Piave.
[...]

V.V.: Abbiamo sostato in un podere dove la trebbiatura è già iniziata. E’ una bella fattoria di color rosso che si affaccia sulla strada che da Littoria porta verso il mare, verso Nettunia. La abita una famiglia di bravi rurali veneti, gente sana e salda di spirito. Sono ventiquattro in famiglia, i più giovani sono alle armi, gli anziani e le donne sono rimasti ai campi. Una nidiata di bimbi dà il sorriso a questa bella famiglia di italiani; hanno le testoline bionde come il grano che accarezzano con le loro manine, e i visetti tondi e paffuti macchiati attorno alle labbra dal succo di pesca. Nei campi la trebbiatrice lavora. (E’ mutato l’ambiente. Il rumore martellante della macchina fa da sfondo e da rilievo alla parola del radiocronista.)

V.V.:Ed eccoci vicini alla macchina. Gli uomini e le donne lavorano con lena. Hanno in capo il caratteristico cappellone di paglia; al collo i fazzoletti multicolori; le maniche rimboccate. Alzano i covoni e li porgono all’imboccatore che con gesto possente li getta nel battitore della macchina. E’ qui che il grano libera il frutto prezioso. Gli uomini sono immersi fino alla cintola in questo mare biondo. Un sole sfolgorante illumina il quadro. Il capo del podere sorveglia il lavoro.

Quanto tempo è che lavorate, capo?

CAPO: E’ da questa mattina all’alba che lavoriamo, e guardate che bel grano è uscito dalla trebbia.

V.V.: Vedo, vedo. Quanti quintali ne avete fatti questa mattina?

CAPO: Ne abbiamo fatti più di 70 quintali, è una bella cifra, no? Ma, scusate, noi lavoriamo dodici ore al

giorno, adesso è mezzogiorno e bisogna che vada a dare il termine del lavoro agli operai per farli andare

a colazione.

(Dissolvenza. Siamo sull’aia dove è imbandita la tavola per il pranzo.)

VV: Il lavoro sulla trebbiatrice è stato interrotto. I contadini scendono sull’aia, il capo famiglia li raduna

per assidersi alla frugale mensa. E’ l’ora del riposo.

[...]

V.V.: La famiglia si siede, assieme agli operai della trebbiatrice, intorno a una grande tavola. Le donne

porteranno tra poco la minestra: zuppa di verdura oggi; sei uova fresche fresche deposte or ora dalle

galline vengono ad arricchire il desco. Tra un’ora il lavoro alla trebbiatrice sarà ripreso e continuerà fino

a tarda ora, incessantemente, sotto il sole generoso di luglio. Così in tutta Italia il rumore della

trebbiatrice scandisce lo sgranarsi dei chicchi preziosi, e i sacchi si accumulano a formare la grande

13 ricchezza .

Dalla seconda metà degli anni ’30 a tutto il periodo della seconda guerra mondiale, dunque, notiamo la nascita di una scuola italiana della radiocronaca che iniziò, grazie alla suddette neonate tecniche di registrazione, a proporre prodotti sempre più elaborati. Radiocronaca, réportage e forme documentarie vissero durante la guerra il loro periodo di massima efficacia mai avuto fino ad allora. Sebbene la radio italiana vestisse ormai da anni l’uniforme; malgrado il fatto che, dalla dichiarazione dell’intervento italiano il 10 giugno 1940 alla caduta del regime nel sud Italia dell’estate del 1943, il fascismo avesse governato il Paese in guerra soprattutto per mezzo della radio; a dispetto della presenza di un Centro Radio Guerra controllato dalla Direzione propaganda del Ministero della Cultura Popolare a curare la diffusione delle notizie sulle operazioni militari14, lo storico Franco Monteleone può affermare che

L’esperienza del reportage, in periodo bellico, del radiodocumentario, della realtà viva, insomma, che viene fatta conoscere al pubblico così come essa era colta dai radiocronisti sui campi di battaglia o dalle zone di operazione fu, nonostante le censure, le reticenze, i camuffamenti, il miglior esempio di informazione possibile. E’ con la guerra che le corrispondenze dai fronti cominciano a introdurre alla

15 radioqueltantodisinceritàediveritàchemancavaintuttelealtretrasmissioni .

E’ lo status di nazione in guerra a fare in modo che la sete di informazione e di conoscenza della popolazione accresca la volontà dei cronisti di riportare la realtà del conflitto nelle case degli italiani. E’ ancora Monteleone a sostenere che I servizi che Antonio Piccone Stella manda dall’Africa settentrionale, le interviste di Mario Ortensi dal

fronte francese, le descrizioni di Cremascoli e Ferretti della vita di tutti i giorni nelle basi militari

16 italianeeranoleprimeanticipazionidelneorealismoradiofonicodegliannicinquanta .

2. La maturità e il neorealismo radiofonico

Durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare dallo sbarco americano in Sicilia nella tarda estate del 1943, si sviluppò in Italia il fenomeno delle radio di guerra. Si trattava di stazioni che, spesso con l’appoggio o sotto il diretto controllo dello Psycological Warfare Branch statunitense, agivano a favore e a sostegno del conflitto antifascista. Dai microfoni di Radio Palermo, Radio Bari, Radio Napoli, quindi successivamente anche da Radio Roma e Radio Firenze, giornalisti spesso fuoriusciti dall’Eiar, oltre a scrittori e personalità del campo culturale, trasmettevano notizie di tipo tecnico-militare dirette ai movimenti partigiani e proponevano alla popolazione una controinformazione rispetto a quella fornita dall’Eiar ancora fascista e dalle stazioni ad essa collegate. Le radio di guerra, grazie al coraggio e alla volontà dei loro redattori, ebbero inoltre un ruolo importante nello sviluppo del réportage e del genere del documentario. Secondo Gianni Isola, infatti, il “primo vero documentario in diretta” fu “La liberazione di Firenze” [ascolta un estratto da "La liberazione di Firenze /1945)]: opera nata nel fuoco della battaglia grazie al coraggio e all’inventiva del giovane cronista di Radio Firenze Amerigo Gomez, che ovviò all’inamovibilità degli strumenti di registrazione a sua

17 disposizione ponendo questi strumenti su un carretto legato alla propria bicicletta .

Quando il 26 ottobre 1944 l’Ente Radio Audizioni Italiane cambiò il nome in Radio Audizioni Italia (Rai), in seguito ad un decreto relativo alla riorganizzazione della radiodiffusione, inizialmente poco sembrò variare, o meglio, meno di quanto ci si sarebbe aspettato dopo la caduta del regime fascista.

Il cosiddetto “Vento del Mezzogiorno” – la acuta definizione con cui Alberto Monticone ha indicato tutte quelle forze nuove che avevano animato i microfoni della Rai e delle radio alleate in lingua italiana – non riuscì a sostituire, nemmeno nei giorni immediatamente seguenti la fine delle ostilità, il vecchio personale Eiar compromesso col regime, che in breve riprese il controllo della «stanza dei bottoni». [...] Era chiaro che la dirigenza Rai aveva ormai deciso di riportare nell’alveo della vecchia Eiar centralista

18 leesperienzedirinnovamentomaturatenelperiodoeroicoeturbolentodellaResistenza .

Possiamo leggere nelle parole di Isola un riferimento non unicamente ad una reintegrazione di dirigenti e funzionari della radio di stampo fascista, ma anche di quella classe di giornalisti e redattori che, per convinzione o per necessità, avevano esaltato il regime nei loro servizi, réportage e documentari. Alcuni di essi, assieme con nuove leve reclutate dalla neonata Rai o confluite dalle esperienze delle radio di guerra, contribuirono a creare il periodo d’oro del documentario radiofonico italiano, quello della sua piena maturità, che alcuni storici hanno definito come neorealismo radiofonico.

Si veniva formando all’interno dell’azienda un gruppo di giovani giornalisti che si impegnarono ad esaltare le proprie qualità e quelle specifiche del mezzo utilizzato. Se i divi sono ancora, oltre ai classici Niccolò Carosio e Vittorio Veltroni, gli annunciatori come «Titta» Arista, Dino Piodi (Milano), Ele Vigorelli (Torino), Furio Caccia (Milano), Marinella Picchi (Roma) e «la voce del regime», l’attore Guido Notari, espressione di questa tendenza innovatrice e modernizzatrice sono i giovani documentaristi radiofonici come Roberto Costa (autore del celebre prototipo-documento sonoro sui barboni milanesi [ascolta un estratto di "I barboni" (1950)], chedo ancora le vecchie radiomobili dell’Eiar, a cui si era aggiunto del materiale dimesso dall’esercito americano alla fine dell’occupazione militare alleata, la Rai veniva impegnando i suoi migliori elem strinse il cuore alle dame dell’alta borghesia per i suoi toni lugubri e lamentosi) [...]. Pur utilizzanenti nello sviluppo del «genere» documentaristico, lanciando a più riprese inchieste di carattere economico, politico e sociale, tese in generale a documentare lo sforzo del paese nella ricostruzione, non senza segnalare le sacche di arretratezza e di miseria che punteggiavano la penisola. [...] La radio scopriva l’impegno sociale e, pur con prolungati toni di maniera intrisi di paternalismo e assistenzialismo, affermava la sua presenza rinnovata nell’ambito della società e del mondo dell’informazione. [...] Era la risposta, professionalmente di alto livello, ma politicamente di segno moderato, all’impegno sociale del cinema in

19 cuiilneorealismo[...]avevaaccompagnatoilrilanciodell’industriacinematografica .

Un accostamento tra il genere del documentario nel periodo del secondo dopoguerra e il neorealismo, la corrente estetico-artistica che nasceva mentre la penisola non era ancora del tutto pacificata – è del 1944 infatti “Roma città aperta” di Roberto Rossellini – è stato proposto da tutti gli storici della radio. Alcuni di essi concordano nel sostenere che le opere radiofoniche degli anni ’50 – per lo più documentari, ma anche alcune fiction – possano andare a formare una corrente individuabile, nella storia della radio italiana, come neorealismo radiofonico. Altri storici dissentono da questa idea: pur scorgendo delle assonanze con il linguaggio dei film neorealisti, rifuggono la definizione di neorealismo radiofonico.

Con qualche anno di ritardo rispetto all’ambito cinematografico, nacque la tendenza della suddetta squadra di radiogiornalisti a muoversi sul territorio nazionale alla ricerca delle facce nascoste della società durante la ricostruzione post-bellica. In quel periodo venivano formate le Radiosquadre: gruppi di giornalisti, redattori, personale tecnico e addetti allo spettacolo che viaggiavano per il Paese sui furgoni 1100 dell’Eiar, raggiungendo anche i villaggi più remoti, per rinsaldare il rapporto tra l’emittente nazionale e la gente. Nelle trasmissioni e nei réportage realizzati dai giornalisti delle Radiosquadre saliva alla ribalta la realtà di un’Italia ancora dimenticata dai piani di ricostruzione, non ancora risollevata dalla depressione bellica. Si produssero dunque in quegli anni, grazie ad autori quali Roberto Costa, Aldo Salvo, Sergio Zavoli, Massimo Rendina, Giovan Battista Angioletti (che firmò, insieme a Zavoli, “Notturno a Cnosso” [ascolta un estratto di "Notturno a Cnosso" (1953)] uno delle opere documentaristiche più apprezzate di quel periodo), Luca Di Schiena, Amerigo Gomez, Gigi Marsico, Enrico Ameri e Nando Martellini – in seguito passati alla redazione cronistica sportiva – e molti altri, la maggior parte dei documentari rimasti negli annali della storia della radio italiana. Siamo tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50: è il momento del ritorno in onda di “Voci del mondo”20, di Vittorio Veltroni come «redattore capo dei radiocronisti», di una Rai che cerca un colloquio diretto con il Paese proponendo, secondo Ortoleva, un uso massiccio del microfono aperto. La spinta documentarista di quel periodo nasce da tutto ciò, e produce anche programmi di stampo documentaristico, spesso prodotti dagli stessi autori delle opere documentarie. Ecco come li presenta nel 1948 Antonio Piccone Stella, all’epoca responsabile del Giornale Radio:

“Italia com’è”. Documentari sonori registrati in giro per le province italiane...come itinerari turistici e folcloristici, con dibattiti estemporanei su questioni locali.
“Cronache della produzione”. Documentazioni radiofoniche sull’attività produttiva (visite a fabbriche e cantieri, conversazioni con dirigenti e lavoratori, indagini statistiche).

“Senza invito”. Visite improvvise col microfono in ambienti curiosi o segreti o tipici...
“Istantanee radiofoniche”. Colpi di obiettivo fotografico in città e campagna, al mare e sui monti, per cogliere la realtà che passa e far parlare l’uomo della strada.
“Cortili”. Trasmissioni dai più caratteristici e popolari cortili delle nostre città per rappresentare, nella

21 segreta intimità casalinga, la vita di oggi...

Senza dimenticare la lunga e fortunata serie di “Viaggio in Italia” di Guido Piovene, che nel 1954 realizzò ben 93 puntate [ascolta un estratto da "Viaggio in Italia: Salerno"].

Si può dunque parlare di una stagione del neorealismo radiofonico? Come visto in precedenza, Gianni Isola sostiene che si trattò di una risposta professionalmente di alto livello, ma politicamente dai toni diversi, più moderati, al neorealismo in ambito cinematografico. Si tratterebbe di interessanti esperimenti, documentari

22 Spessoditagliosociale,inomaggioalneorealismodominanteincampocinematografico .

E’ Franco Monteleone che, invece, sostiene l’esistenza di un neorealismo radiofonico.

L’alto livello professionale della radio italiana, durante l’intero decennio degli anni cinquanta, si manifestò non solo nelle edizioni del GR, ma in un genere di informazione più mediata, spesso di rara eficacia linguistica, a volte addirittura di notevole bellezza estetica: il documentario. Era un genere che tendeva a mostrare aspetti della realtà sociale che altrimenti sarebbero rimasti assenti dalla programmazione radiofonica. In una perdurante penuria di occasioni informative, che non era certo modificata dalla propaganda dei cinegiornali e dalla loro scadente e limitatissima offerta, i documentari radiofonici di quel lungo periodo ebbero il merito di contribuire, in misura niente affatto esigua, a far conoscere il paese così com’era, ma anche ad allargare gli orizzonti di una realtà non solo nazionale. Per questo tipo di giornalismo, che ha dato alla radio esempi numerosissimi e spesso magistrali di capacità professionale, penso che si possa legittimamente parlare di «neorealismo radiofonico», un pedinamento realizzato utilizzando le voci, i suoni, i rumori di un mondo esterno che entrava nelle case degli italiani senza retorica e vi portava un’aria di vita, di cose viste, di fatti a volte tristi o crudeli, ma

23 anchevicendedigioiaedisperanza .

Diversa è, invece, la posizione di Peppino Ortoleva. Durante un colloquio, rispondendo ad una nostra domanda circa una possibile somiglianza tra i prodotti radiofonici degli anni ’50 e quelli cinematografici del secondo dopoguerra, ci ha risposto:

Erano tempi duri, era l’epoca della ricostruzione, quindi i temi della difficoltà del vivere quotidiano erano temi reali, immediatamente sotto gli occhi di tutti. Però non esageriamo. Cioè possiamo dire che c’era un clima generale di fascinazione per le potenzialità di racconto e insieme di produzione del reale che erano proprie dei mezzi tecnici. L’uso del registratore che fanno Costa e lo stesso Zavoli ha qualcosa in parte di simile all’uso della cinepresa che fanno tanto Rossellini, quanto De Sica: c’è quindi un gusto della presa diretta sulla strada, del tirar fuori problemi sociali nascosti. Però non mi sentirei di parlare in senso stretto di neorealismo radiofonico come qualcuno ha fatto. Diciamo che era un clima culturale

24 cheandavainquelladirezione .

Quindi, secondo lo storico, si tratta di una somiglianza di temi – data la quasi corrispondenza temporale – e di un’affinità nell’approccio all’uso dei mezzi di riproduzione. Le parole espresse dallo stesso Ortoleva durante il suo intervento al convegno del Prix Italia del 1996 chiariscono ulteriormente il suo punto di vista.

Se è possibile riconoscere nel neorealismo anche il frutto di una radicale disillusione (che tocca un’intera generazione) con la retorica e con l’uso retorico-propagandistico dei media, e il tentativo di fondare una nuova estetica del mezzo meccanico nella sua capacità insieme di documentare il reale e di costruire un modello di racconto radicalmente innovativo sul piano delle forme, allora non vi è dubbio che anche il documentario radiofonico, con la sua enfasi sull’uso del registratore in presa diretta, con la sua ostilità verso l’uso di attori, rientra in una tendenza analoga, anche se la diversa collocazione anche

25 politicadeiduemezzinecondizioneràildestino .Notiamo in questo passaggio un’affinità con le idee di Isola: entrambi gli storici pongono un accento sui diversi toni politici dei due tipi di prodotti – di grande denuncia i film neorealisti, dai toni spesso paternalistici o pietosi26 i documentari radiofonici – e sulla diversa collocazione politica dei due mezzi nel panorama mediatico dell’epoca. Non va dimenticato che, mentre il neorealismo cinematografico nacque dal netto rifiuto dei temi e delle modalità di espressione tipiche dell’epoca fascista, i documentari radiofonici degli anni ’50 furono realizzati spesso da giornalisti che si erano formati durante il regime, e comunque sotto la guida di molti di quei direttori – Vittorio Veltroni in primo luogo – e funzionari già presenti tra le file dell’Eiar. Non vogliamo con questo intendere che la Rai non si presentasse con una funzione di servizio per la società civile, i cittadini e la democrazia, ma che certamente non si può parlare di un distacco netto dal passato fascista. Allo stesso modo, anche se possiamo certamente ravvisare un nuovo, rivoluzionario, uso del microfono dal dopoguerra in poi, questo si lega però alla realizzazione di trasmissioni che talvolta avevano un alto tasso di retorica, ben rappresentata da una ossessiva voce off. I temi, senza dubbio, erano inediti: se il regime tentava di dare l’idea di un paese ordinato, quasi perfetto, i nuovi documentari andavano alla ricerca di una diversa realtà. Una certa ritrosia, però, forse antico retaggio del periodo pre-bellico, emergeva talvolta ancora dall’ambiente dell’emittente pubblica. Così, nell’Annuario Rai del 1953, si poteva leggere:

Quei primi documentari, se avevano il merito di aver scoperto il linguaggio radiofonico, avevano però anche il difetto di essere estremamente facili e pessimisti. Carceri, manicomi, e rifiuti della società, erano soggetti di per se stessi ricchi di cariche emotive. E non erano che fratelli radiofonici di film come Paisà, Caccia tragica e Sciuscià. Perché il documentario potesse vivere come arte a sé doveva uscire dal binario neorealistico e rasserenare la propria sostanza illuminandosi di umorismo, di dolcezza e di pietà.

27 Diventareumano.Il1952èl’annodiquestaliberazione .

Fortunatamente non tutti i documentaristi decisero di seguire prescrizioni di questa natura e non si “liberarono” dei “rifiuti della società”, ma continuarono a trattarne. Franco Chiarenza commenta sarcasticamente quanto scritto su quell’Annuario, indicando come si esortò, in quell’occasione, a passare dai

Documentari sulle carceri, sui manicomi, sui “barboni”, ad altri più “ottimistici” sulle scuole di danza

28 osullapescasubacquea .

L’influenza del clima neorealista si fece sentire, infine, anche sulla letteratura italiana. E’ Marina Zancan ad analizzare l’incidenza del neorealismo in questo campo, dopo aver compiuto, analogamente al nostro caso, un ragionamento sul fatto se si possa o meno parlare di neorealismo come corrente letteraria, data l’assenza di un corpus teorico e di poetiche esplicite. In letteratura il periodo in questione si può situare, analogamente all’ambito cinematografico, tra il 1943 ed il 1950, a partire cioè dagli scritti della lotta clandestina, e si manifestò con un mutato

29
rapporto tra vero e bello che si estrinsecò in una nuova «poetica dell’immediatezza» . La Zancan individua due assi,

uno tematico ed uno formale, per spiegare le caratteristiche dei prodotti di quel periodo.

In ambito tematico si ha l’assunzione ad oggetto di rappresentazione dei fatti della vita quotidiana (in alcuni testi ancora la realtà della lotta, spesso la propria realtà di intellettuale, in altri la realtà di un quartiere, di una città, la realtà contadina, la storia di una vita). Il dato di trasformazione, nel romanzo ormai codificato, è che il vero della vita è il materiale su cui lo scrittore lavora, operando una trasformazione in chiave artistica: dal vero si parte e al vero si torna e la scrittura che ne risulta è un romanzo verosimile, e quindi impegnato.

In ambito formale la costante di fondo è la ricerca di un linguaggio aderente ai gesti, alle parole, al tempo della realtà rappresentata; [...] si riconosce la necessità e la possibilità di ridefinire il linguaggio letterario nel senso di una sua tendenziale aderenza ai fatti stessi. Il passaggio che si attua può essere descritto sinteticamente (e anche con qualche forzatura) dicendo che da una pratica narrativa dettata e immessa molto direttamente nella pratica della vita, si passa alla definizione (non teorizzata, ma

30 propositiva,ditiposperimentale)diunapoetica,lapoeticadell’immediatezza .

Un paragone con le opere di un supposto neorealismo radiofonico viene immediato: utilizzando lo schema della Zancan, proviamo a tracciare i due assi anche per i documentari radiofonici. Per quanto riguarda l’ambito tematico, notiamo come anche nelle opere radiofoniche degli anni ’50 l’oggetto della rappresentazione siano le persone con le loro storie, però in questo ambito solitamente si vanno a cercare le storie e le realtà quotidiane di gruppi disagiati o poco conosciuti al grande pubblico (senzatetto, malati di mente, minatori, monache di clausura,...). Spesso c’è la ricerca dello strano, del bizzarro, di personaggi che attirino l’attenzione degli ascoltatori per la loro diversità o eccentricità. Un esempio di questo tipo di tendenza la fornisce l’attacco de “Gli ultimi testimoni del passato”, opera del 1953 di Massimo Rendina:

MASSIMO RENDINA: Prendono parte a questa trasmissione una donna che ha parlato con Garibaldi, un pioniere dell’automobilismo, un reduce d’Adua, un tale che vide assassinare Umberto I, chi assistette dalla Riva degli Schiavoni al crollo del campanile di San Marco, e poi uno dei primi aviatori, il libraio

31 amicodiCarduccieuncantanteamicodiCaruso.Gliultimitestimonidelpassatoremoto .

In ambito formale possiamo notare come l’introduzione della “vita vera”, senza troppi filtri, ed un uso “neorealista” del microfono abbiano portato alla ribalta radiofonica i dialetti, gli italiani regionali, i parlati colloquiali fino a quel momento poco presenti sui media di massa e riscoperti proprio grazie alla considerevole copertura del territorio messa in atto da documentaristi e Radiosquadre. E’ però la lingua di alcuni autori, di certi speaker – voci narranti dei documentari – che spesso ancora non cambiava, che rimaneva ingessata, stentorea, a ricordare certe voci “littorie” tipiche dei prodotti di regime. A nostro avviso, da un punto di vista formale, la vera rivoluzione del documentario radiofonico si ebbe sul finire degli anni ’60 con la nascita della docufiction.

3. Una nuova stagione: la nascita della docufiction

Gli anni ’50 si sono dunque rivelati come il periodo della massima maturità per il documentario radiofonico italiano. Se gli storici non sono concordi nel definire una data, o un’opera, che rappresenti la nascita del genere in Italia, gli stessi si trovano d’accordo nel situare la fine del periodo aureo del genere stesso tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60. Potremmo prendere “Clausura” [ascolta un estratto da "Clausura" (1958)] di Sergio Zavoli, opera del 1958, come il punto limite di questo periodo d’oro. E’ come se Zavoli avesse raccolto tutte le suggestioni di quel decennio – che egli stesso aveva contribuito a creare –, la nuova estetica del mezzo di registrazione, la consapevolezza circa le possibilità e la leggerezza del mezzo, la voglia di andare alla scoperta di luoghi e persone spesso “inaccessibili” e le avesse riversate nel suo documentario sulla vita delle monache di Clausura. Punto tra i più alti raggiunti da quel gruppo di giornalisti, probabilmente punto limite, almeno rispetto ai tempi, di quel modo di concepire la radiofonia, “Clausura” chiude in grande stile l’epoca aurea dei giornalisti documentaristi.

Peppino Ortoleva parla, per quel periodo, di “morte del documentario classico”, indicando come essa vada Attribuita forse non alla TV, ma al 16 mm da un lato e alla banalizzazione dell’audioregistrazione

32 dall’altro.

Durante un’intervista che ci ha concesso per approfondire il tema di questa tesi, ci ha illustrato il suo pensiero.

Il 16 mm significa che c’è un mezzo tecnico per fare cinema con una leggerezza d’impianto paragonabile, anche se inferiore, a quella della radio. Cioè sostanzialmente ci si poteva muovere con una cinepresa leggera in due persone e si poteva fare tutto, quindi si potevano fare degli interventi estremamente rapidi. Del resto un prodotto come TV7 nasce da questo. Con la banalizzazione della registrazione voglio dir questo: che sostanzialmente il mezzo registratore che nei primi anni ’50 era ancora una sorta di meraviglia – quindi la testimonianza registrata appariva un elemento di grande impatto –, nel ’57-’58, col lancio del Gelosino, che era il primo registratore portatile italiano ed era un bene relativamente

33 abbordabile,laregistrazionediventaunacosaabbastanzacomune .

Quindi da un lato veniva smitizzato il forte impatto che aveva il documento sonoro, dall’altro nasceva un grande interesse verso quei prodotti filmati che, grazie al 16 mm, acquisirono quella “leggerezza” che era stata fino a quel momento prerogativa unicamente della radio. Nel 1954 la Rai aveva cominciato a trasmettere regolarmente il segnale televisivo, e gran parte dell’attenzione era rivolta al nuovo mezzo che permetteva di realizzare inchieste e documentari con la stessa agilità di quelli radiofonici, ma con l’aggiunta di quelle immagini che lo rendevano un linguaggio di maggiore impatto per il pubblico dell’epoca. Inoltre molti dei giornalisti artefici del periodo aureo del documentario radiofonico passarono alla redazione del neonato TG: innanzitutto Veltroni, che ne fu il primo direttore, poi Roberto Costa, Massimo Rendina, Sergio Zavoli.

La televisione aveva “cannibalizzato” la radio, secondo Enrico Menduni, ma

Del resto, perché stupirsi? A suo tempo anche la radio aveva vampirizzato i media preesistenti. Adesso, facilitati dalle immagini, gli spettatori trovavano più faticoso l’ascolto radiofonico se il programma non aveva una vivacità tale da tener desta la loro attenzione; la radio era così costretta ad un forzato

34 rinnovamentodeipropricaratteriespressivi .

Anche il documentario radiofonico mutò la sua forma, compiendo una radicale trasformazione delle proprie caratteristiche: si andava verso un documentario realizzato non più da giornalisti ma da registi, verso la docufiction. Abbiamo intervistato Armando Adolgiso, regista ed autore radiofonico impegnato nel campo della sperimentazione sonora, il quale ebbe modo di osservare questo cambiamento di forma del documentario dall’interno delle strutture Rai. Ecco il suo racconto:

Io noto che c’è stato nella storia della radiofonia italiana un passaggio che ha cambiato il profilo del documentario. In principio era un documentario di tipo giornalistico, cioè fatto sul campo, nella stragrande maggioranza dei casi, o afidandosi al repertorio, quindi un archivio fonico, e questo era legato spesso a delle cose folcloristiche o a grandi disastri – penso ad esempio all’alluvione del Polesine – e allora su questo andava un giornalista e faceva un documentario su questo tipo di avvenimenti, di solito di qualità media-elevata. Mi sto riferendo, per inquadrarlo storicamente, agli anni ’50, ovviamente con tutti i limiti che si possono immaginare di tipo politico. Non credo sia stato fatto un documentario radiofonico su Portella della Ginestra, o sugli incidenti di Battipaglia, per riferirmi sempre a quegli anni. Quindi, dando per scontato una linea politica all’origine, sto parlando della sua formulazione tecnica, non tanto della sua libertà, laddove questa libertà non c’era. Ma all’interno di questo tracciato, indubbiamente, la formula era quella essenzialmente giornalistica: vale a dire un’intervista intercalata a voci e suoni del luogo e a un commento in prima o in terza persona fatta dal cronista. Naturalmente c’era maggiore libertà dal punto di vista politico quando il documentario veniva fatto all’estero, come al solito, anche in anni non tanto lontani. In epoca di Bernabei arrivava un giorno sì e uno no una protesta dall’Ambasciata americana per come venivano trattati, ma guai se ti azzardavi a parlare dell’ultimo consigliere fanfaniano dell’ultimo paesino montano...ti trovavi coi moncherini in moviola. Anzi, la Rai da un punto di vista editoriale compensava l’assenza di informazione, o addirittura la distorsione della politica interna, con un’ampia libertà sulla politica estera, anche se toccava gli alleati, come in questo caso gli Stati Uniti. Quindi un primo passaggio a me sembra questo: abbiamo un documentario con delle regole e dei canoni narrativi talvolta anche complessi, ma molto predefiniti. Non è un caso che molti di questi documentari si aprano su di un’effettistica: c’è una panoramica di effetti e voci, poi interviene il coro, potremmo dire alla maniera del teatro greco, che è il giornalista che commenta i fatti, e poi introduce di volta in volta i personaggi fino al deus ex machina che è il personaggio dei personaggi che può essere il direttore del carcere, il parroco, insomma una figura che presiede in qualche modo il luogo e l’avvenimento. Questa cosa ha avuto poi una contaminazione. Francamente io credo che sia intorno ai primi anni ’70, in cui c’è stata quella che si chiama docufiction: che è questo incrocio tra una documentazione sul campo e una edizione di documenti o testi che

35 quell’avvenimento studiato ha prodotto .

Un mutamento di indirizzo, dunque, per il documentario radiofonico, dopo la consacrazione degli anni ’50 della forma di approfondimento giornalistico. Adolgiso ci illustra uno degli aspetti che hanno contribuito a creare questo cambiamento.

Fu proprio il documentario a suscitare una grossa vertenza sindacale all’interno della Rai. E questo

c’entra col documentario perché lo ha condizionato in una maniera molto seria, non so se l’abbia

migliorato o no, certamente l’ha condizionato. Il motivo è molto semplice. Questi documentari, come del

resto le riprese esterne registrate Rai, si facevano con un particolare registratore che si chiamava

NAGRA – c’era il NAGRA II, poi III, poi il IV, a seconda del modello di questo grande registratore

svizzero di grandissime prestazioni. Col NAGRA si utilizzava un microfono che si chiamava LABOR, che

permetteva sia una buona ripresa dell’intervista ma era anche un panoramico, per cui se tu volevi

metterlo in una piazza e sentire il campanile con lo stesso microfono potevi svolgere un’intervista in voce

e prendere degli effetti in campo lungo. Bene, questo giornalista – siamo dunque nel periodo dal

dopoguerra in poi – era sempre accompagnato da un tecnico il quale amministrava il NAGRA. Oggi può

sembrare una cosa buffa visto che perfino la troupe televisiva è composta da tre persone, ma allora per

fare un documentario radiofonico si muovevano in due. La radio, che è stata sempre piuttosto agile,

aveva questa coppia: da una parte il giornalista, dall’altra il tecnico. Ad un certo punto è venuto fuori

che sia il giornalista sia l’Azienda hanno detto: «Tutto sommato questo strumento è così agile che questo

tecnico a che serve?», e devo dire che la cosa è proprio così. Insorse un sindacato interno di tecnici

potentissimo, il cui nome è SNATER (Sindacato Nazionale Autonomo Tecnici Ente Radiofonico), e non

insorsero per motivi estetici, ma perché tutte le riprese esterne, documentario radiofonico incluso, erano

una manna per gli straordinari per le trasferte che si facevano. Naturalmente non potevano dire questa

cosa, sarebbe stata una figuraccia non soltanto sul piano sindacale, e allora trovarono una ragione e

dissero: «No, perché quando va fuori questa persona porta poi una serie di materiali così confusi, così

fatti male, per cui poi noi dobbiamo lavorare molto di più e aumentano le ore di produzione e quindi è

una perdita per l’Azienda». Naturalmente era una scusa, e una scusa che detta dai tecnici è molto buffa

perché la tecnologia va verso la miniaturizzazione e la semplificazione delle manovre per usarla, quindi

è una teoria che è uscita ampiamente sconfitta e oggi non esiste proprio che vada un tecnico fuori: è già

tanto che esista un tecnico dentro, figuriamoci fuori. Tutto questo per dire che ad un certo punto il

documentario ha avuto delle difficoltà di procedimento, perché mentre va avanti questa discussione che

dura un paio d’anni – questo nei primi anni ’70 – naturalmente vengono tirati i freni e i documentari si

36 fannodimeno .

Accerchiato dalla fuga dei giornalisti verso la televisione, dall’impatto delle immagini che colpivano l’immaginario degli italiani maggiormente dei documenti sonori, dalla inedita leggerezza delle nuove cineprese e da avvenimenti come la sentenza SNATER, il documentario si trasforma in qualcosa di nuovo. Naturalmente la forma del documentario di stampo giornalistico non svanisce, la si continua a produrre tuttora, ma ottiene sempre meno spazio nella programmazione dell’emittente pubblica. Nasce allo stesso tempo un nuovo prodotto dall’unione del concetto di documentario come riproduzione della realtà, così come la vede un autore, con le tendenze della radiofonia degli anni ’60 e ’70. In Rai è il momento della sperimentazione, la stagione dei grandi registi. La forma radiofonica si mischia con quella teatrale, il documentario si fonde con il genere drammatico. Registi come Giorgio Bandini, Giorgio Pressburger, Carlo Quartucci propongono regie di grande complessità, caratterizzate dalla continua ricerca di sonorità nuove, effetti inediti, partiture di voci, musiche e suoni elaborate in montaggi suggestivi e d’avanguardia. Alcuni di questi drammaturghi, su tutti Giorgio Bandini, creano trasmissioni che fanno nascere anche in campo radiofonico la forma della docufiction: un documentario che lega brani registrati “dal vivo” ad altri costruiti per l’occasione, magari recitati da attori che interpretano personaggi reali o inventati. Si tratta di opere sofisticate non solo per la loro concezione drammaturgica, ma anche per la loro concezione sonora, espressiva, effettistica.

Con la docufiction il documentario cambia. A questo punto non viene neanche più chiamato documentario perché diventa, anche per la gestione interna dei programmi Rai, un vero e proprio programma, talvolta addirittura gestito dalla prosa, perché ci sono di mezzo degli attori che devono leggere. Tanto è vero che questo documentario – chiamiamolo così ma stiamo parlando della docufiction – esce dai ranghi dei servizi giornalistici com’era esclusiva gestione del tempo, e lo si trova nell’area programmi. E’ significativo il passaggio, cioè significa che non lo si riconosce più come un genere di informazione cronistica, ma come un genere espressivo estetico, laddove le musiche, gli effetti, vengono viste come parti fondamentali. Stiamo slittando verso il teatro di prosa in qualche modo, tanto è vero che viene gestito dal settore prosa. Allora abbiamo molte di queste cose fatte così. Io stesso per le poche esperienze fatte – a parte il fatto che non sono un giornalista, che non ero inquadrato nel settore giornalistico – e quel tanto che ho visto, ritengo che la docufiction sia un prodotto estetico, non più un prodotto informativo, anche se poi di fatto lo è. Questo prodotto, lo spirito che lo anima, passando dal giornalistico al drammaturgico, diventa un’interpretazione – siamo sempre di fronte ad un’interpretazione del fatto, anche se il giornalista dice una cosa nel vecchio documentario, in ogni caso sta interpretando, è impossibile non farlo – ma stavolta siamo ad un’interpretazione dell’interpretazione, perché nel momento in cui intervengono dei documenti letti da attori, intervengono altre espressività che a loro volta interpretano. Il documentario comincia ad arricchirsi, o a distorcersi, su una serie di interpretazioni. A questo punto faccio un piccolo esempio personale: il sottotitolo del documentario che ho fatto su Campana era “Ricostruzione rigorosamente arbitraria della vita di Campana37”, e questo riguarda il discorso che stiamo facendo: nel momento in cui io dico “rigorosamente arbitraria”, ho cambiato parecchie regole del gioco. Siamo non solo su un’espressione un po’ buffa, che può avere una sua cosmetica verbale, ma siamo sul piano in cui è permesso fare un’interpretazione

38 dell’interpretazione,dichiarosubitoleregoledelgioco .

Fu dunque anche la committenza interna alla Rai a mutare in questo senso: si passò dalla dirigenza giornalistica alla dirigenza programmi, da un giornalista ad un dirigente che poteva anche essere un giornalista, ma interessato alla produzione di prosa, spesso di carattere fortemente sperimentale.

D’altronde gli embrioni di questo periodo di sperimentazione formale si possono già ravvisare in alcune marginali tendenze dell’epoca del supposto neorealismo radiofonico. E’ del 1955 la nascita dello Studio di Fonologia: laboratorio di ricerca sonora, attivo presso la sede Rai di Milano, che sviluppava nuovi linguaggi musicali legati all’elettronica e analizzava nuove fonti di produzione del suono. Con l’utilizzo, poi, del moderno nastro magnetico, aumentarono le possibilità di montaggio e manipolazione dei suoni raccolti, e nacque un procedimento analogo al montaggio cinematografico: il fonomontaggio, una pratica di elaborazione dei materiali sonori che ha lo scopo di creare un racconto sonoro . Anche il linguaggio dei radiodrammi, insieme a quello dei documentari, cambiava: i microfoni

venivano fatti uscire dagli studi di registrazione e ci si avvaleva di scenografie sonore catturate on the ground. Il regista, poi, utilizzava questo materiale, lo manipolava, lo mixava a musiche, voci, effetti creati elettronicamente: si formavano così dei testi sonori paragonabili a partiture, nasceva la “scrittura su nastro”. E’ del 1968 uno degli esempi più interessanti di questa forma di espressione: “Intervista aziendale” di Carlo Quartucci e Primo Levi. Quartucci costruì un’opera nella quale, alle interviste realizzate con gli operai in una fabbrica, giustappose altre interviste simulate nelle quali degli attori si fingevano operai e interpretavano brani improvvisati dagli attori dopo l’ascolto delle vere interviste. La sonorizzazione, poi, alternava i rumori effettivamente registrati in fabbrica con effetti surreali quali barriti di elefanti o versi di altri animali. Nel 1970 il procedimento della “scrittura su nastro” toccò uno dei suoi apici con “Giochi di fanciulli” di Giorgio Pressburger, che vinse il Premio Italia nello stesso anno. Pressburger creò negli studi Rai di Torino un luogo dove i bambini di una scuola elementare giocarono per mesi, tra strumenti musicali, scivoli, tubi, botti, e altre attrezzature che scatenavano la loro fantasia. Il regista ci ha spiegato di aver cercato

Ragazzi per lo più meridionali che conoscessero ancora quei vecchi giochi rappresentati nel quadro di

Bruegel il Vecchio [cui si ispirò per ideare questa opera]. Li ho fatti giocare per settimane nello studio

radiofonico registrandoli. Non ci sono significati ma parole misteriose: sanguis ad esempio, che

semplicemente indica un movimento della mano in un gioco che si chiama “Le cinque pietre”. Uno

lancia in aria una pietra, mette una mano sul cuore e poi acchiappa la pietra e questo si chiama

40 sanguis .

Il senso di questo lavoro non risiede in un intento documentaristico, Pressburger non volle illustrare come giocavano i bambini, ma intendeva, tramite un raffinato lavoro di montaggio, dando particolare spazio alla ricerca in campo sonoro, ritrovare

41 Laritualità,illinguaggioarcanoenonquotidiano .

Il documentario degli anni ’60 e ‘70 di snodava, dunque, lungo queste linee direttrici: grande attenzione al montaggio e alla sonorizzazione, sperimentazione nella forma, rielaborazione della realtà da parte di quegli stessi registi che spesso si occupavano di fiction radiofonica, commistione con la fiction stessa.
Uno dei maestri della docufiction degli anni ’60 e ’70 in Italia fu Giorgio Bandini, regista eclettico e sempre all’opera per produrre lavori di profonda rottura coi generi tradizionali, che lasciassero qualcosa agli ascoltatori sia dal punto di vista sonoro, che da quello del significato. La sua opera prima è del 1966: “Il guerriero scomparso o dell’evoluzione”, una docufiction che racconta il viaggio di un giovane siciliano che decide di emigrare al nord Italia per trovare lavoro. Bandini decise di realizzare il suo prodotto sul campo, viaggiando con un tecnico sui treni che dalla Sicilia si dirigevano a Milano, alternando le parti recitate a brani di conversazioni, rumori e suggestioni registrate lungo il percorso.

Era un documentario-fiction che aveva impressionato la giuria del Premio Italia, ma siccome c’erano

rappresentati tutti i dialetti, poi era folle, per loro era impensabile premiarlo, così hanno aspettato

42
l’anno dopo e mi hanno premiato con “Nostra casa disumana” . Ma quello che avevo fatto prima era il

percorso di tutta l’Italia compiuto da un giovane siciliano che lasciava la Sicilia per il nord, perché voleva diventare civile. C’era la Sicilia di partenza – l’abbiamo fatto con la Rai di Torino, quindi c’era il tecnico di Torino che era Pierino Boeri, un gigante friulano – e abbiamo fatto tutto il percorso. C’era l’incubo del treno per arrivare al nord, e io raccontavo tutto, gli episodi e gli incontri del treno, e poi arrivava a Milano. Aveva un titolo piuttosto curioso perché tra l’altro partivo dall’idea che lui aveva gli stessi diritti del giovane protagonista di Proust, quindi tutte le mattine la mamma gli dava il corrispettivo delle madeleines. Lui non aveva un’idea di che cos’è la società civile che andava a raggiungere, arrivava in questa Milano dove suonavano le Kessler, che allora dominavano la canzone italiana, quindi c’erano tutte le canzoni di allora, brani e sprazzi che si vivevano, e l’orrore dell’arrivo alla stazione di Milano. Lui parlava poco, e poi si perdeva in una manifestazione di protesta politica della sinistra. Si

43 perdevae...cosaglisaràsuccesso?Avràcapito?Chilosa .

Bandini non spiega, ma interpreta e insieme fa sentire la realtà sonora di quel periodo. Inoltre lascia un finale aperto, in modo da suggerire una rielaborazione da parte dell’ascoltatore.
Nel 1975, in seguito al suicidio di due bambini di Parma, venne chiesto a Bandini di realizzare un prodotto radiofonico sulla vicenda. Il regista si recò sul posto e si affidò ad all’ingenua recitazione di un gruppo di scolari di una prima elementare.

Quel documentario lì era pieno di favole, ma non favole note. Io ci giocavo, erano elementi di fiabe: delle porte che sbattevano all’infinito, dei personaggi, delle ombre, delle voci all’infinito. [...] Io ho adoperato tutto quello che era possibile, l’orrore e la bellezza venivano dalle favole che io interpretavo, la realtà era ininfluente di fronte ai pensieri di questi due bambini, una volta tanto la realtà era ininfluente. [...] Dovevano morire questi due ragazzi, non perché fosse giusto, ma noi siamo tutti diversi, come facciamo ad entrare nella testa di due bambini che si suicidano? Da che cosa saranno stati affascinati? Noi dobbiamo dare delle idee. Era inutile che parlassero il padre, la madre, gli amici, io

44 dovevodarel’inutilitàdiunaricercafattasullarealtàedimmaginare .

Quello di Bandini è senza dubbio un concetto limite: un documentario – è lui stesso a definirlo così – che rifiuta a priori la realtà, la testimonianza, e che sceglie, invece, l’immaginazione come motore interno della narrazione.

4. Il documentario nel sistema radiofonico odierno

Abbiamo fin qui analizzato le tendenze principali cha hanno accompagnato la storia del documentario in Italia: l’epoca dei precursori nel periodo della radio fascista; la ricerca della descrizione delle facce di un Paese che usciva dalla seconda guerra mondiale, negli anni ‘50; la sperimentazione verso nuove sonorità e la proposta di una nuova chiave di lettura della realtà, negli anni ’60 e ’70. In ognuno di questi periodi di nascita e crescita del documentario possiamo individuare, se non una scuola o una corrente, almeno la presenza di gruppi di documentaristi con intenti e gusti comuni, che spingevano il genere verso determinate forme e poetiche. Il documentario sembrava, in quei periodi, un genere vivo, importante per la radiofonia italiana, fonte di conoscenza per gli ascoltatori.
Il panorama radiofonico dei nostri giorni non potrebbe in alcun modo indurre a considerazioni analoghe.
Basterebbe domandare ad un gruppo di ascoltatori non specializzati se conoscono il genere del documentario, se ne ascoltano saltuariamente degli esempi, se ricordano almeno un documentario che li ha colpiti, per capire quanto sia scarso, oggi, l’interesse per questo genere radiofonico. Andando ad analizzare i palinsesti delle radio italiane, infatti, è rarissimo imbattersi in documentari, o almeno programmi che si fondano su tecniche e stili affini a quelli del documentario. Inoltre, per la prima volta dagli anni ’30 in poi, oggi non si scorge la presenza di una classe di documentaristi, o almeno di cronisti, o comunque autori, che possano fornire nuova linfa ad un genere che sembra essere estromesso dalle frequenze nazionali per venire relegato ad alcuni concorsi specialistici o su siti web fortemente targhettizzati.

Per quale motivo si è giunti, negli ultimi due decenni, a questa situazione? Indubbiamente ha inciso in larga parte la mutazione del sistema radiofonico italiano. Con l’immissione di soggetti privati sulla scena, la concessionaria pubblica si è lentamente trasformata, andando a snaturare alcune delle caratteristiche proprie di una radio di servizio pubblico e accentuando, invece, quei connotati che di certo non favorivano un aumento dell’attenzione rivolta al documentario, genere, come abbiamo visto finora, che era stato sempre presente nei suoi palinsesti. Enrico Menduni sottolinea come in Rai, per l’allarme creato dall’arrivo dei competitori privati in ambito televisivo nei tardi anni ‘70, si sia più o meno volontariamente trascurata la radio, ponendo in tal modo le basi per una successiva stagione opaca dell’antenna pubblica.

La comparsa di un nemico, nei panni sartoriali di Silvio Berlusconi – un nemico dal sorriso metallico che si stava mangiando l’audience Rai e con essa la conclamata centralità del servizio pubblico – mise le ali ai piedi al pesante establishment Rai e lo concentrò sul consolidamento dell’ascolto e del consenso sulla linea del Piave televisiva, dimenticando definitivamente la radio. In radio il nemico non c’era45,

o almeno era ciò che si pensava allora.
Era il momento del
commercial deluge46, del diluvio commerciale sul sistema della comunicazione di massa. La televisione attirava maggiormente l’interesse degli inserzionisti, portava introiti superiori, quindi i vertici della Rai privilegiavano la difesa del ruolo di leader televisivo. Inoltre ci fu una sottovalutazione delle possibilità delle giovani radio commerciali:

Negli anni ’80 la Rai si è illusa – senza mai dirselo esplicitamente – che le radio private si alimentassero di un comportamento giovanilistico, che fossero un oggetto per adolescenti, un giocattolo da abbandonare quando, una volta cresciuti, avrebbero assunto le abitudini di ascolto dei loro padri. Su questo ha costruito un’implicita divisione del lavoro, o meglio un’autolimitazione del proprio campo d’azione: che le private parlassero pure ai giovani, che costruissero pure i loro network nazionali che la legge Mammì avrebbe protetto dall’annessione a Fininvest, la Rai poteva proseguire in un’offerta generalista per adulti, variegata politicamente e con varie gradazioni di informazione e di cultura, tanto al momento di arrivare nella vita questo pubblico avrebbe dovuto misurarsi con le proposte Rai, che contenevano un tasso di vita civile, di informazione di servizio, di comunicazione sociale che sembrava

47 irraggiungibileperunaradiomusicale.Fuungravissimoerrore .

In realtà il modello di radio che emerse dagli anni ’80 fu proprio quello delle radio commerciali, la cui programmazione è organizzata “a flusso”, attorno ai clock: una radio nella quale i metodi di produzione seguono i dettami della serialità, nella quale non si trova più uno spazio per i singoli programmi d’autore, e i documentari, se ancora ci sono, tendono alla forma del docu-clip. Inoltre, se sul finire degli anni ’80 la radiofonia italiana si presentava piuttosto frammentata, e si poteva immaginare che maturando avrebbe accentuato le differenze che vivevano all’interno della propria realtà proponendo una diversificazione dell’offerta, negli anni successivi si sono fatti pochi passi in questa direzione. Anzi, all’opposto, l’evoluzione dell’offerta si è di fatto bloccata: le radio sembrano essersi appiattite su forme che le rendono molto simili le une alle altre, che indubbiamente accentuano i lati comuni piuttosto che le tendenze divergenti. In

48 particolare l’evoluzione dell’offerta si è bloccata per quanto riguarda lo sviluppo dei formati basati sulla parola . In

risposta a queste tendenze, poi, la Rai, così come ha fatto in ambito televisivo, non ha rifiutato la sfida lanciatagli dalle emittenti commerciali e, impossibilitata a combattere sul proprio territorio, è scesa sul campo di battaglia delle radio private.

Non è nostra intenzione invocare un ritorno ad una radio “vecchio stile”, è normale che la radio evolva le proprie forme secondo il tempo che i suoi ascoltatori stanno vivendo. Però, a nostro avviso, di recente sulle frequenze pubbliche spesso si è messa in secondo piano una certa ricerca della qualità radiofonica per inseguire un pubblico ormai abituato al modello della radio di flusso. La scomparsa dei documentari, oltre che alle scelte della nuova dirigenza la quale – è semplice intuirlo empiricamente dall’osservazione dei palinsesti – non ama il genere del documentario, è frutto di questo tipo di concezione della radio pubblica.

La radio pubblica non potrà mai più essere come prima, ma al tempo stesso sarebbe un errore continuare a considerare innovativi quei modelli di programmazione ispirati soltanto alla radiofonia commerciale, che persegue altri obiettivi, esercita altre funzioni, esprime altri interessi, e conseguentemente utilizza altri linguaggi49,

sostiene Franco Monteleone, che aggiunge,

E questo è un tema che riguarda, più in generale, il destino futuro della Rai e il significato stesso di servizio pubblico nel campo della comunicazione, cioè di quella parte di offerta audiovisiva che in un mercato libero non attiverebbe una suficiente domanda privata e dunque non sarebbe prodotta, pur

50 avendounelevatovalorecollettivo,eticoecivile .

Il documentario è un prodotto che stimola la comprensione, l’approfondimento di problemi e tematiche, la conoscenza di sprazzi di realtà, la sperimentazione in ambito sonoro, e non può venire escluso dalla programmazione di una radio pubblica. Allo stesso tempo, però,

Il documentario è un genere particolarmente esposto e vulnerabile [...], è cioè un esempio rilevante di

un modo di fare e di intendere la radio messo in crisi da più punto di vista. [...] E’ chiaro che una forte

consapevolezza e una cultura radicata del servizio pubblico rappresentano un elemento di contesto che

aiuta a mantenere al documentario un ruolo, un’identità e una funzione ancora assai rilevanti, mentre al

contrario un modo di concepire il servizio pubblico centrato quasi esclusivamente sulla capacità di

competere con l’emittenza privata sul terreno degli indici di ascolto, schiaccia le possibilità di

sopravvivenza e di sviluppo del documentario, mettendo in primo piano altri generi più funzionali al

51 giocodellaconcorrenza .

Le cause della crisi del documentario sulle frequenze pubbliche sono per lo più economiche. Gli indici di ascolto di programmi di approfondimento – tra i quali a buon diritto si colloca il documentario in tutte le sue forme – sono bassi, e comunque non proporzionati alle spese che necessita la produzione di opere elaborate. Il genere, all’interno del sistema radiofonico attuale, è funzionalmente non valido. La realizzazione di prodotti come i documentari, in questo momento, è soggetta ad un esame che non valuta tanto la qualità dell’opera, quanto piuttosto il costo del processo di produzione in rapporto alla visibilità che l’opera otterrà. Se questa valutazione può essere in parte accettabile – è normale che un’azienda si curi del rapporto tra prodotto e costi di produzione – viene però da chiedersi, proprio in relazione al ruolo istituzionale della Rai, se il destinatario dei programmi è visto unicamente come consumatore o invece anche come cittadino, soggetto sociale.

Allora se questo contesto in qualche modo diventa presente accanto a quell’altro, probabilmente per il

documentario radiofonico ci sono degli spazi che la logica interna di sviluppo del solo sistema dei media

52 tendeinveceadoccludere .

Le riorganizzazioni di Radio Rai del 1990 e del 1994 hanno disegnato un profilo dell’emittente pubblica i cui tre canali si differenziano per i contenuti, ma in nessuno dei quali sembra trovare spazio il documentario. Radiouno si dedica principalmente all’informazione e ha anche competenze sui GR delle altre due reti , Radiodue è diventato il canale di intrattenimento, quello che maggiormente ha assunto i tratti della radio generalista a flusso, Radiotre è il canale culturale, colto, che alterna trasmissioni dal contenuto impegnato a musiche che non si trovano sulle playlist delle altre radio. In una Rai strutturata in questo modo non dovrebbe essere difficile trovare le forme più “giornalistiche” del documentario sul primo canale e le forme più prossime alla sperimentazione sul terzo, ma così non è. Dalla fine dell’esperienza di “Cento lire”, nel 2001, sono stati minimi gli spazi lasciati a prodotti di questo genere.

Oggi possiamo ascoltare su Radiouno unicamente alcuni programmi composti da servizi che possono ricordare le prime forme di documentario: si è tornati indietro al tempo di “Voci dal mondo”, rubrica che infatti, forse non a caso, è tornata all’interno del palinsesto del primo canale Rai. Inoltre spesso questi pochi prodotti hanno una durata irrisoria e sono situati in orari poco funzionali all’ascolto. “Permesso di soggiorno”, ad esempio, programma a cura di Maria Mannino che si prefigge di proporre

La vita e i percorsi dei migranti filtrati da una microfono diretto e curioso: i suoni, i rumori, i silenzi e le voci che cambiano l’Italia [vai al sito di permesso di soggiorno]

è in onda quotidianamente, per otto minuti, dalla 5:50 alle 5:58. Siamo al docu-clip teorizzato da Kopetsky.
Quale può essere, dunque, uno scenario futuro per una nuova diffusione del documentario?
L’invito di Franco Monteleone, nel 1996, era quello di uscire dalla “dittatura della modulazione di frequenza” e rivolgersi alle nuove tecnologie, per

Innescare una diffusione di canali radiofonici inimmaginabili, attraverso i quali ritorna quella

tematizzazione, quindi quella segmentazione dei prodotti che oggi la modulazione di frequenza via etere

53 circolarenonconsente .

La tecnologia, oggi, viene incontro a questa necessità di creare canali alternativi per la diffusione di prodotti sonori che non sempre incontrano il gusto del grande pubblico e che, quindi, vengono esclusi dalle frequenze. I nuovi canali distributivi di documentari potrebbero essere le web radio. Per web radio intendiamo un’emittente radiofonica che rende disponibiliisuoiprodottisonorigrazieallareteinternet.Sitrattadiunfenomenonatoallafinedeglianni‘90 chesista sviluppando in modo esponenziale in tutto il mondo grazie alla sempre maggiore diffusione della banda larga per la 54

trasmissione di informazioni . Una web radio propone contenuti sonori grazie allo streaming audio: una tecnica che permette la trasmissione di file multimediali che l’utente, grazie ad un programma detto reader o player, può ascoltare anche senza aver completato il download, rendendo possibile dunque la trasmissione di programmi in diretta. Il fenomeno delle web radio sta promuovendo, inoltre, un nuovo modo asincrono di concepire l’ascolto di prodotti sonori, detto audio on demand, che potrebbe essere estremamente funzionale alla distribuzione di documentari radiofonici: la 55

radio ubica sul proprio sito un archivio di file sonori che l’utente può ascoltare quando desidera . Inoltre, grazie alla neonata pratica del podcasting, è possibile scaricare in modo automatico, dopo la registrazione al sito web desiderato – quindi anche una web radio – file sonori ascoltabili sul proprio computer o trasferibili sui lettori mp3.
La nascita di un numero sempre maggiore di
web radio apre nuove e interessanti prospettive per quanto riguarda la natura dei contenuti dei canali di distribuzione radiofonica, le caratteristiche del parlato, le tipologie di ascoltatori, le fonti di finanziamento e di controllo. La sopravvivenza delle web radio si baserà molto sulla tematizzazione, sulla scelta di target di ascoltatori appassionati di determinati generi, musiche, prodotti sonori. Chi ancora crede nel documentario radiofonico come arma civile e come opera sonora di alto valore, può dunque trovare nuovo spazio e nuove motivazioni grazie al web, sia da ascoltatore, che da produttore e broadcaster.

© Andrea Amato (2005) 

Note

1 Peppino Ortoleva, “Il documentario radiofonico: linguaggi e forme tra passato e futuro”, in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica: il documentario, Rai, Roma 1996, p. 67.

2 Ivi, p. 68.
3 Gianni Isola, “Breve storia del documentario radiofonico in Italia”, in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica:

il documentario, cit., p. 178.

4 Ente Radio Audizioni Italiane, la concessionaria del Governo italiano per le radioaudizioni circolari, nata il 17 novembre 1927 dall’Uri, Unione Radiofonica Italiana.

5 Gianni Isola, “Breve storia del documentario radiofonico in Italia”, in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica: il documentario, cit., p. 177.

6 Annuario Eiar 1929 citato in Anna Lucia Natale, Gli anni della radio, cit., p. 62.
7 Gianni Isola, “La guerra come genere radiofonico”, in AAVV, Guerra e mass media, a cura di Peppino Ortoleva e

Chiara Ottaviano, Liguori Editore, Napoli 1994, p. 106-107.

8 Gianni Isola, L’ha scritto la radio, Bruno Mondadori, Milano 1998, p. 307-308.

9 Enciclopedia della radio, a cura di Peppino Ortoleva e Barbara Scaramucci, Garzanti, Milano 2003, p. 953.

10 Franco Cremascoli, Parlano i combattenti. Radiocronache di guerra trasmesse dall’Eiar e raccolte, Eiar, Roma 1942, p. 32-37.

11 Enciclopedia della radio, a cura di Peppino Ortoleva e Barbara Scaramucci, cit., p. 543-544.

12 Peppino Ortoleva, “Guerra e mass media nel XX secolo”, in AAVV, Guerra e mass media, cit., p. 10.

13 Franco Cremascoli, Parlano i combattenti. Radiocronache di guerra trasmesse dall’Eiar e raccolte, cit., p. 117-121. 14 Paolo Murialdi, “Il mondo in ogni casa: un nuovo genere di giornalismo”, in AAVV, La radio ieri oggi domani, Eri-Rai,

Torino 1984, p. 99.

15 Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio Editore, Venezia 2005, p. 133.

16 Ibidem.
17 Gianni Isola, “Breve storia del documentario radiofonico in Italia”, in AAVV, Alla ricerca della qualità

radiofonica: il documentario, cit., p. 179.

18 Gianni Isola, Cari amici vicini e lontani. Storia dell’ascolto radiofonico nel primo decennio repubblicano, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 106-140.

19 Ivi, p. 145-146.
20 Programma che prese il nome, dal 1949, di “Voci dal mondo”.

21 Descrizione fatta da Antonio Piccone Stella e raccolta in Peppino Ortoleva, “Il documentario radiofonico: linguaggi e forme tra passato e futuro”, in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica: il documentario, cit., p. 69.

22 Gianni Isola, “Breve storia del documentario radiofonico in Italia”, in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica: il documentario, cit., p. 179.

23 Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, cit., p. 260-261. 24 Intervista con Peppino Ortoleva, Torino, 11 maggio 2005.

25 Peppino Ortoleva, “Il documentario radiofonico: linguaggi e forme tra passato e futuro”, in AAVV, Alla ricerca

della qualità radiofonica: il documentario, cit., p. 68.
26 Si veda come Isola, nel brano da noi riportato relativo alla nota 19 di questo capitolo, descrive “I barboni” di Roberto Costa.

27 Annuario Rai 1953 citato in Franco Chiarenza, Il cavallo morente, Bompiani, Milano 1978, p. 40-41. 28 Franco Chiarenza, Il cavallo morente, cit., p. 41.

29 Marina Zancan, “Tra vero e bello, documento e arte”, in AAVV, Cinema e letteratura nel neorealismo, a cura di Giorgio Tinazzi e Marina Zancan, Marsilio, Venezia 1983, p. 41.

30 Ivi, p. 52-53.
31 “Gli ultimi testimoni del passato”, documentario di Massimo Rendina, 1953.

32 Peppino Ortoleva, “Il documentario radiofonico: linguaggi e forme tra passato e futuro”, in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica: il documentario, cit., p. 69.

33 Intervista con Peppino Ortoleva, Torino, 11 maggio 1005.

34 Enrico Menduni, La radio nell’era della tv, Il Mulino, Bologna 1994, p. 31.

35 Intervista con Armando Adolgiso, Roma, 7 luglio 2005. 36 Ibidem.

37 “Rintocchi di Campana. Ricostruzione rigorosamente arbitraria della vita di Campana”, documentario di Armando Adolgiso, 1979.

38 Intervista con Armando Adolgiso, Roma, 7 luglio 2005.

39 Enciclopedia della radio, a cura di Peppino Ortoleva e Barbara Scaramucci, cit., p. 316.
40 Intervista con Giorgio Pressburger, Torino, 7 maggio 2005.
41 Ibidem

42 “Nostra casa disumana”, di Giorgio Bandini, vinse il Premio Italia per le opere stereofoniche nel 1968.

43 Intervista con Giorgio Bandini, Roma, 1 luglio 2005. 44 Ibidem.

45 Enrico Menduni, Il mondo della radio. Dal transistor a internet, Il Mulino, Bologna 2001.
46 Il concetto di commercial deluge venne introdotto da Jay Blumer. Per un’analisi del concetto e del fenomeno ad

esso relativo si veda Paolo Mancini, Il sistema fragile, Carocci Editore, Roma 2000, p. 87-91. 47 Enrico Menduni, Il mondo della radio. Dal transistor a internet, cit., p. 173-175.

48 Barbara Fenati, “Fare la radio negli anni 2000”, in AAVV, La Radio. Percorsi e territori di un medium mobile e interattivo, cit., p. 71.

49 Franco Monteleone, “Introduzione”, in AAVV, La radio che non c’è, cit., p. XIII. 50 Ivi, p. XIII-XIV.

51 Mauro Wolf, “Il documentario: un genere da riscoprire”, in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica: il documentario, cit., p. 12.

52 Intervento di Mauro Wolf durante il dibattito a termine della conferenza sul documentario radiofonico del Prix Italia del 1996. Mauro Wolf in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica: il documentario, cit., p. 280.

53 Intervento di Franco Monteleone durante il dibattito a termine della conferenza sul documentario radiofonico del Prix Italia del 1996. Franco Monteleone in AAVV, Alla ricerca della qualità radiofonica: il documentario, cit., p. 274.
54 Enciclopedia della radio, a cura di Peppino Ortoleva e Barbara Scaramucci, cit., p. 942

55 Ivi, p. 408-409.