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Sulla strada di Parmenide tutto è chiaro

Da Velia, dove il filosofo dell’essere nacque e fondò la sua scuola, fino allo scoglio di Palinuro, dove annegò il timoniere di Enea. Bellezza e mistero per viaggiatori illuminati.
Velia. “Senza nascita è l’Essere e senza morte,/tutto intero, unigenito, immobile. E incompiuto/mai è stato o sarà, perché è tutto insieme adesso,/uno continuo”. Oltre Acciaroli e Pioppi, paesi marinari amati da scrittori e poeti, la statale corre parallela al mare ma del mare si sente solo l’odore. Velia, l’antica Elea, è vicina e i versi di Parmenide, uno dei più grandi poeti filosofi dell’antichità, risuonano pieni di mistero, complessità, echi delle innumerevoli interpretazioni che i secoli hanno generato sul “filosofo dell’essere”. Ma fu davvero un filosofo dell’essere, Parmenide? Fu davvero questa la storia? Mentre mi avvicino alla città dove arrivò Senofane a cantare la sua polemica contro la divinità antropomorfa, dove nacquero Parmenide e Zenone, dove sorse una scuola medica di enorme importanza nell’antichità, penso che sia stata soprattutto una storia di nostalgia. Una storia di dolore (algos) del ritorno (nostos), di dolore generato da ciò che si è perduto e non si riavrà mai più; da ciò che si è riavuto ma non sarà mai più lo stesso; da ciò che non si è avuto mai e che si continua paradossalmente a sognare. Nostalgia e memoria su tutto. Del resto proprio così si aprì la storia di questa cittadina che oggi sembra dimenticata tra le campagne di Marina di Ascea. Era il 542 a.C. e da queste parti non c’erano che mare e coste mentre Focea (oggi Foça, Turchia, nord di Izmir), assediata dai persiani, in una notte si svuotò. Quasi tutto gli abitanti raccolsero le proprie cose, le infilarono su navi velocissime e tagliarono l’Egeo “color del vino” fino a Chios. Ci restarono pochissimo, però. Dopo una navigazione intensa sulle orme degli Argonauti, sbarcarono in Corsica, ad Alalia, una colonia fondata da altri Focei Vent’anni prima. Qui la permanenza durò cinque anni ma ancora una volta la nuova patria si rivelava insufficiente. Cosa mancava, oltre a rapporti di buon vicinato? Mancava un paesaggio capace di placare la nostalgia. Una peregrinazione lungo le rive della penisola italica aiutò a stabilire il luogo più adatto. Ossia un colle proteso sul mare a dividere due insenature, prorpio come ancora oggi a Foça. Con un nuovo dolore che prendeva la loro anima, il dolore di quel che torna e che non torma mai, i Focei sbarcarono, costruirono abitazioni sui due versanti del monte come in patria e le congiunsero con una bella strada di pietra, segnata in cima da una monumentale porta.

A entrarci oggi, nella città che prese il nome dalla fonte Yele, sembra che tutto sia cambiato. Le rovine dell’antica Elea restituiscono un panorama ben diverso da quello che sedusse i Focei. La linea costiera si è spostata. I due golfi sono interrati e il colle su cui svettarono i resti della Velia medievale domina pianure che un tempo erano mare. Basta soprattutto prendere la magnifica via che sale verso l’antica porta. Qui tutto improvvisamente si rivela. A tal punto che è inspiegabile il motivo per cui così pochi turisti e appassionati si decidano verso questa destinazione. Di fronte alla cosiddetta Porta Rosa, rimango immobile e solo per ore. Finché un gruppo di veneti arriva sfidando il caldo becero. Colpiti anche loro dalla bellezza della porta antica restano in silenzio davanti a uno dei più antichi testimoni della nascita della filosofia occidentale. “Le cavalle che mi portano fin dove l’animo giunge / mi trascinavano, dopo avermi avviato sulla strada ricca di canti (…) / Lì è la porta che segna il cammino della Notte e del Giorno. / Le fanno da cornice un architrave e la soglia di pietra. / La chiudono grandi battenti che toccano il cielo”. Il proemio del suo poema Parmenide lo scrisse proprio qui attorno al 468. Era nato nel 510, quasi trent’anni dopo la fondazione di Elea, il “venerando e terribile Parmenide” come lo avrebbe chiamato Platone con deferenza. Quel che scrisse di fronte a questa porta avrebbe dato filo da torcere a tutti i suoi lettori nei secoli a venire. “Ecco che ora ti dico quelle che sono le sole due vie di ricerca pensabili: / l’una com’”è” e come impossibile che sia che “non sia” / di persuasione è la strada, che a verità si accompagna / l’altra come “non è”, come sia necessario “non sia”, / che ti dichiaro sentiero del tutto estraneo al sapere”. Filosofia dell’essere su cui Parmenide avrebbe fondato una scuola, il cui primo discepolo fu Zenone, nato qui nel 485? Oppure poema politico zeppo di allusioni e metafore come si addiceva a un legislatore quale fu Parmenide” in realtà, proprio qui, sotto questa terra così poco calpestata, solo cinquant’anni fa gli scavi archeologici hanno restituito iscrizioni che fanno propendere per una terza strada. Quella di un grande medico, curatore dei mali che sempre affliggono gli uomini, capace di proposte politiche e di vie religiose, strade da percorrere per fare i conti con la propria anima, innanzitutto, come avevano indicato già Pitagora e i seguaci dell’orfismo. Dunque forse attraverso percorsi di iniziazione misterica e riti di cura indotti con metodi di incubazione, sogno e trance.

Una risposta certa non la si avrà mai. Ma chiunque legga della scuola eleatica, la filosofia dell’essere contrapposta a quella del divenire di Eraclito, dovrebbe venire a Velia, davanti alla Porta Rosa, toccare con mano la lontananza fisica dell’altro discepolo della presunta scuola (che in effetti – e questo è sicuro – non esistette mai). Melisso, nato a Samos, su mari che i Focei avevano abbandonato giurando di non tornarci mai più. Si deve venire qui, deviare dalla bellissima Via della Porta Rosa, e sostare davanti al Santuario di Asclepio, dove i medici celebravano i loro riti in onore del dio della medicina. Si deve poi salire verso l’antica acropoli e guardarsi attorno dalla torre angioina del colle immaginando i luoghi dove un tempo era il mare. Solo allora, con gli occhi pieni della Focea perduta, la strada verso il sud può essere ripresa. Ci aspetta un ultimo scoglio  su cui si infransero i sogni di un’altra nostalgia, infatti. La città perduta stavolta era Troia e chi veleggiava lungo queste cose era Enea. La notte incombeva, le stelle chiare indicavano la via e il timoniere, Palinuro, credeva di poter resistere alle lusinghe del dio che spargeva sonno sulle sue tempie, rilassandone le pupille oscillanti. Cadde in acqua e nessuno lo sentì mentre invocava i compagni. Finchè Enea stesso se ne accorse, prese i comandi e «pilotò nelle onde notturne, / molto gemendo, e turbato il cuore dalla sventura dell’amico: / “O troppo fiducioso nel cielo e nel mare tranquillo, / nudo, o Palinuro, giacerai su un’ignota spiaggia”». La spiaggia non è più ignota. Porta il nome di quel ragazzo che conduceva la nave con fiducia in eccesso. È una spiaggia magnifica e celebrata. Ci ricorda il ritorno cantato da ogni mito e ogni filosofia. Il ritorno impossibile, sempre impossibile, che tuttavia noi umani siamo condannati a inseguire.

“Il Venerdì” 4 settembre 2015

Matteo Nucci

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