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Pacheco e l’Antico Messico: il gesto poetico ci salverà

Secondo la celebre definizione di Faulkner, la poesia è l’espressione più alta della letteratura (ma pochissimi ce la fanno davvero); subito dopo viene il racconto breve (“la forma più difficile dopo la poesia”); “fallito anche questo tentativo, lo scrittore si dedica infine al romanzo”. José Emilio Pacheco (1939-2014) si è dedicato eccome al romanzo (uno, perfetto nella sua brevità, è stato tradotto da Pino Cacucci in Italia per La Nuova Frontiera: Le battaglie nel deserto), ma senza fallire nella poesia (fra i più importanti messicani della sua generazione) e senza fallire neppure nel racconto. La conferma arriva da questa seconda raccolta tradotta ancora una volta da Raul Schenardi: Il principio del piacere (SUR, pp. 141, euro 14).

Come ne Il vento distante, è l’infanzia il cuore pulsante della poetica di Pacheco. E l’abbandono di quell’età perfetta in tutto sembra possibile è il centro di questi sei racconti. Cosa succede agli uomini quando “si deve vivere”, ossia quando si è costretti alla realtà dall’esistenza adulta? Il racconto che da il titolo al libro lo dice fin dall’inizio nell’ambiguità sia spagnola che italiana del termine “principio”. Quando il giovane protagonista incontra Ana Luisa e di lei s’innamora e verso di lei comincia a provare i desideri che tutti conosciamo, il lettore è costretto a chiedersi seguendo il suo doloroso diario se il “principio” del piacere sia anche “l’inizio” del vero piacere o se non sia invece la sua fine. La finitezza del reale, la sua sporcizia, la noia che tutto copre di inutile chiarezza possono però essere spazzate via in un gesto, il gesto poetico di chi sa sporgersi su dimensioni apparentemente fantastiche. Pacheco sovverte la dimensione temporale (cronologie ribaltate, navi fantasma, un passato mai accaduto) e quella spaziale (aperture nella terra, sottosuolo, ingressi verso civiltà scomparse come la México-Tecnochtitlán distutta da Cortés nel 1521 e sulle cui ceneri fu costruita Città del Messico) concedendo all’uomo rimasto bambino di scomparire, rendersi invisibile, sottrarsi. In una lingua semplice e studiatissima (Pacheco non smetteva mai di correggere i suoi scritti) troveremo il segreto di quel piacere che non deve scomparire mai, neppure quando si è costretti a vivere.

“Il Venerdì” 8 gennaio 2016

Matteo Nucci

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