A gennaio di ogni anno, Laborde, minuscola
cittadina nel sudest della provincia di Córdoba, Argentina, diventa la capitale
assoluta di un agone fra gauchos, i
cavallerizzi della pampa che si nutrono di coraggio, lealtà, fierezza,
silenzio, solitudine e nomadismo. Lo spazio entro cui questi uomini combattono
è costituito dal palco arrangiato in un grande edificio e la sfida a cui si
sono preparati con costanza e sacrificio per un anno intero è racchiusa nella
perfezione con cui battono i piedi al ritmo della musica sulle assi di quel
palco. La danza che è lo strumento di questa sfida, il malambo, dura poco più di quattro minuti, ma si tratta di minuti
eterni. Le combinazioni di movimenti e colpi che costituiscono le mudanzas, ossia le figure del ballo,
richiedono una preparazione fisica e mentale mostruosa che costa sacrifici
impensabili. Chi non si è esercitato a dovere rischia di soffocare. Chi non si
mantiene calmo rischia la perdita di se stesso. La vittoria, del resto, non
porta denaro ma solo gloria. E il sogno più straordinario a cui aspirano i
combattenti di questo agone che è in primo luogo sfida a se stessi e alle
proprie capacità ha addirittura un risvolto drammatico. Chi si laurea campione
di malambo a Laborde, infatti, aderisce a un patto tacito in base a cui non
gareggerà mai più né in questo né in altri festival. Il trionfo coincide con la
fine, con l’ultimo malambo ballato in vita.ù
Una storia semplice di Leila Guerriero (Feltrinelli, pp. 107, euro 12) racconta “un uomo che, nello stesso istante in cui riceve la corona, viene annientato”, ma che va incontro alla sua fine con tenacia, ossessione, paura e orgoglio, per conquistarsi “il prestigio e l’ossequio, la consacrazione e il rispetto, l’importanza e l’onore di essere uno dei migliori fra i pochi capaci di ballare questa danza assassina”. Per spiegare una sfida apparentemente paradossale nel tempo degli sport televisivi e delle competizioni milionarie Leila Guerriero è tornata tre volte a Laborde, scegliendo il primo anno (il 2011) l’uomo che si laureò vicecampione, Rodolfo González Alcántara, un uomo comune che apparve al centro del palco “come un vento funesto o come un puma, come un cervo o come un ladro di anime” capace, nei suoi quattro minuti e cinquantadue secondi, di “stritolare la notte in un pugno”. La sua vita, le sue aspettative e la sua preparazione, circondato da gente che arriva a non mangiare pur di raggranellare monete per concedersi il lusso di accompagnare alla prova definitiva il suo beniamino, culmina nella prova che l’autrice segue l’anno successivo ormai lei stessa presa dalla lotta contro primo più severo ostacolo che i malambisti devono affrontare e sconfiggere per mezzo di una sorta di accettazione: la paura. I quattro minuti e quarantanove secondi in cui González Alcántara batte i piedi in figure sublimi apparentemente calmo, ieratico e deciso, diventano il discrimine oltre cui sarà comunque un profluvio di lacrime: di trionfo o di fallimento. Nel 2013, il lettore di questo reportage narrativo che dischiude un mondo solo apparentemente lontano, potrà seguire l’eroe di Una storia semplice nel suo ritorno a Laborde. Per ballare ancora o per non ballare mai più. “Il Venerdì” 5 giugno 2015 Matteo Nucci Home page > Arti e Letteratura > |
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