“Ma questa facoltà dell’anima che è la memoria, impadronendosi non so come di quanto non è più, ne crea un’immagine e una realtà. Per questo l’oracolo ai Tessali su Arne ammoniva di fare attenzione all’udito di un sordo e alla visione di un cieco” (Plutarco, L’eclissi degli oracoli) «Montalbano mentalmente lo dedicò a tutti quelli che si sdignavano di legiri romanzi gialli pirchì, secondo loro, si trattava sulo di un passatempo enigmistico», scrive Camilleri alla p. 117 di La vampa d’agosto. Pubblicato nel 2006, e adattato per il piccolo schermo nel 2008, La vampa d’agosto è un libro che costringe a dire, rammemorando altri libri e altri lettori: «un lampo si è prodotto nel romanzo contemporaneo: il noir è di nuovo possibile!». E a ri-leggere i precedenti Montalbano, facendo retroagire il feed-back della Vampa sull’apparente conciliazione stilistica, sul preteso barocchismo linguistico, sulla ripetitività lungamente attesa al varco. La vampa spariglia le carte, rimette a posto due o tre punti che erano gradualmente sfuggiti alla vista, e fa giustizia di molti aspiranti eredi; il maestro del poliziesco italiano si conferma(va) ancora lui, il produttore del tenente Sheridan, l’uomo con l’impermeabile – e del momento più noir del poliziesco italiano: quella barella che entra in ambulanza con uno Sheridan ferito a morte [⇒ qui, 55:00].
Da Vigàta a Macallé: le due strade del camilleriano Strano destino, quello della lingua scritta di Camilleri: i suoi estimatori l’accettano senza riserve, e la metabolizzano senza a né ba; i suoi detrattori la snobbano come barocchismo, stilismo artificioso, pseudo-gaddismo. Com’è possibile che la lingua di Vigàta sia la stessa della Sicilia degli anni Trenta, che Montalbano parli lo stesso idioma di Michilino, l’angelo minchiuto della Presa di Macallé? Eppure, è la stessa. Il camilleriano non è una miscela di italiano e dialetto, o un italiano dialettizzato: non c’è quell’“afrodisiaco dialettale” che fu criticato nel neo-realismo letterario, né l’infinita derogazione della lingua all’interno di sognate architetture del Pasticciaccio di Gadda. Camilleri peraltro non usa la paratassi, come fanno gli autori di noir suoi contemporanei: nondimeno, ne ottiene lo stesso effetto. Sul fondo oscuro di un idioma che non è né siciliano né italiano, Camilleri innesta due diverse operazioni: svuota la lingua di termini e strutture, per poi riempirla con termini e frame sintattico-grammaticali siciliani, creando uno strano effetto. Al posto dei vuoti ci sono dei pieni di non facile decodifica, che però il lettore può saltare senza ricorrere al dizionario, grazie al senso che viene comunque formandosi nel complesso del periodo: è il periodo nella sua interezza, e non il nome o la concatenazione nome-verbo, a far germinare la significazione. Fra le strutture mancanti c’è il periodo ipotetico, del quale il dialetto siciliano è privo. Camilleri è quindi costretto a un certo equilibrismo per far operare, all’interno di una struttura linguistica che esiste per dire che le cose sono come appaiono, cioè come sempre sono state e sempre saranno, una logica induttiva, che presuppone comunque l’esistenza di un’ipotesi – un mondo possibile alternativo alla mera grammatica delle cose percepite – e la necessità di una sua verifica: la progressiva sostanzializzazione di quel mondo possibile che diventa reale. In questo conflitto oscuro fra ciò che non vuole essere diverso da com’è e ciò che dovrebbe (potrebbe? o forse vorremmo?) essere diverso, si sviluppa la lingua camilleriana: una lingua nomade, migrante fra scrittore e lettore, fra il dire e il detto. Forzata sul lato del dialetto, dice quella dura necessità che porta le vicende di Michilino a finire come immancabilmente dovevano finire: la lingua diventa totalitaria e totalizzante, e rifiuta la rottura della regione unica che inutilmente il corpo e i sensi cercano di operare. Spinta sul lato dell’italiano, il camilleriano riesce a dire la possibilità di un mondo diverso: un mondo nel quale Montalbano è finora riuscito a riportare quel minimo di giustizia che gli è consentito, nella consapevolezza — per citare Manchette – che «può raddrizzare qualche torto, ma non raddrizzerà mai l’iniquità complessiva di questo mondo, e lo sa; di qui la sua amarezza».
Il villain, nel giallo classico, è il riempimento di un significante vuoto (fino al parossismo dei tessitori di grandi complotti tipo Ernst Stavro Blofeld, il Numero 1 della SPECTRE creato da Ian Fleming quarant’anni prima dei deliri complottisti su Soros); nel noir è attraversato dalla composizione di classe della società, dalle sue ingiustizie e segmentazioni. Il giallo considera il male come una perturbazione temporanea, e non mette in questione la bontà dell’ordine sociale; il noir punta il dito sulla ingiustizia che permea o stato di cose esistente, e ne permette, quantomeno, di pensare la sovversione. Montalbano è, sin dall’origine, un personaggio del noir: le sue manìe, le sue particolarità sono coerenti con la presa di distanza dalla tipizzazione che Camilleri cerca di immettere nella sua creatura, pur rimanendo sempre sull’orlo della tipicità (in questo il suo modello è il Maigret di Simenon). La lordura dell’universo creato Bruno, il picciliddro della Vampa, è «un maestro nell’arte di scassare i cabasisi all’universo creato». Un perfetto essere umano: la funzione degli esseri umani è infatti, all’interno della visione di Camilleri, quella di scassare i cabasisi all’universo creato. Cioè di lordare la bellezza della natura. Fosse riposta, in qualche angolo dell’epopea di Montalbano, un barlume di provvidenza, potremmo parlare di concezione creaturale della natura. Ma dio non c’è, probabilmente non c’è mai stato, né a Vigàta né altrove: anche qui siano sull’orlo del noir, ossia del tragico, giacché, a differenza del giallo, il noir non è realistico, è induttivo e tragico [⇒ qui]. Il mondo è, nei romanzi di Camilleri, non uno sfondo sul quale si muovono le figure, ma natura viva, dinamica, dalla quale scaturiscono i personaggi e che dai personaggi è percepita, rappresentata, vista, odorata, assaporata. Sin troppo celebri e abusati i luoghi gastronomici per tornarci sopra: ma almeno va sottolineato che, nell’approccio col cibo – che è natura organica – i sensi anticipano il giudizio, le percezioni sono gettate in avanti a cogliere ciò che altrimenti resterebbe informe. Così la natura in sé: paesaggi, mari, cieli, terre sono luoghi di apparente serenità, nei quali Montalbano spesso si tuffa, si getta, cerca un contatto diretto, al limite (o forse oltre) della fusione col tutto. Sotto un albero secolare o nelle abituali nuotate, o, come in questa Vampa, rotolantesi in un pagliaio: un atto che è un esplicito sostituto dell’amplesso, e al tempo stesso una dichiarata ricerca di oblìo. Nella natura risuona quella disperata ricerca di pace e serenità, quel poco di armonia – cioè di giustizia – che Montalbano cerca di immettere in un mondo ordinato secondo la logica del male. La natura, con la sua bellezza, è in qualche modo il modello a cui si ispira un poliziotto che non riesce più a trovare nelle gesta degli uomini giustizia. Così possiamo tracciare un confronto tra la bellezza di un creato privo di creatore – che è forse proprio per questo pieno di grazia e bellezza – e l’opera degli uomini e delle donne, che continuamente sporca con l’ingiustizia questo mondo. In questo iato tra un modello irrealizzabile nella sua interezza e la quotidiana violazione del modello ideale si colloca la macchina pigra di Camilleri, ossia la possibilità del noir. Metafisica del noir: la giustizia messa in questione Un arabo è stato ucciso. Un edile immigrato, caduto dall’impalcatura del cantiere. Mentre agonizzava il padrone e i suoi scagnozzi «avivano approfittato della situazione e gli avivano fatto a forza viviri vino a tinchitè. Po’ l’avivano lassato sulo a moriri». Morto per caduta causata da stato di ebbrezza, recita il referto: «ma quanti ce n’erano di cosiddetti ‘nfortuni sul lavoro che ‘nfortuni non erano, ma veri e propri omicidi da parte del datore di lavoro?». Morti sul lavoro camuffati da incidenti stradali: «se le cose stavano come se le stava immaginanno, a essiri sconfitto non era cchiù sulo lui, la giustizia stissa, anzi meglio, l’idea stissa di giustizia». Ecco perché il male dev’essere rappresentato in Michele Spitaleri, ricettacolo di ogni aberrazione: costruttore abusivo, corruttore e corrotto, sfruttatore del lavoro altrui, probabile colluso con la tratta dei migranti, pedofilo e stupratore, frequentatore degli esotici paradisi sessuali del terzo mondo – eppure così banale, così comune. Un vicino di casa. Uno di noi. A fronte di un simile essere la violazione stessa della giustizia diventa giustizia: l’idea di giustizia – che ogni cosa sia rimessa al suo luogo naturale, in una naturale armonia – non può che coincidere con la vendetta.
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