di Antonietta Barina. LONDRA. È il 1612 e, nei locali sudici e malsani del carcere di Tor di Nona, a Roma, una giovane appena diciottenne, bella e risoluta, è sottoposta alla tortura della Sibilla: ha le dita legate una per una con lacci che vengono tirati sempre di più. Difficile mentire durante un simile supplizio. E infatti la giovane ripete: "È vero è vero è vero. Tutto quel che ho detto è vero". Artemisia Gentileschi ha giurato davanti al giudice di essere stata violentata: spinta su un letto, ammutolita da un fazzoletto sulla bocca, immobilizzata da un ginocchio tra le gambe. Aveva 17 anni allora e, orfana di madre, era cresciuta quasi segregata nella casa del padre Orazio, pittore di fama modesta nella Roma dell'epoca, che però aveva insegnato il mestiere a quella figlia piena di talento. LE CARTE DEL PROCESSO Il processo dura mesi, perché l'accusato, chiuso in carcere, continua sfrontato a negare lo stupro. Di più: a denigrare la vittima, tacciandola di facili costumi nel viavai della bottega paterna. Fatto è che Agostino Tassi, collaboratore di Orazio Gentileschi, è un vero farabutto, già noto alla giustizia per aver quasi ucciso la moglie, sedotto la cognata e aggredito una prostituto. Ma a 33 anni è anche uno sciupafemmine che, dopo la violenza, ha irretito Artemisia con promesse nuziali, celando d'essere già sposato, per continuare a godere delle sue grazie. Tant'è che ci sono voluti mesi prima che Orazio si appellasse al Tribunale di Roma, sperando di costringere Tassi alle nozze o almeno a un risarcimento. Alla fine otterrà solo la sua condanna all'esilio, che non verrà mai eseguita. Ma a svettare innocente e fiera nel corso del processo è la voce di Artemisia che, mostrando la mano inanellata dai lacci della tortura, arriva a sfidare il suo bugiardo adescatore: "Questo è l'anello che tu mi dai". Sembra di sentirla quella voce indomabile, pur dopo mesi di testimonianze infamanti e l'umiliante verifica della sua verginità perduta. perché i verbali di quel processo, un volumone stilato a mano e rilegato in pelle, finora consultabile solo nell'Archivio di Stato di Roma, viene ora esposto per la prima volta al grande pubblico nella mostra Artemisia, che apre il 3 ottobre alla National Gallery di Londra. E che raccoglie una trentina delle sue opere migliori, provenienti da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. Si tratta della prima mostra su Artemisia Gentileschi nel Regno Unito: a ispirarla, l'acquisto nel 2018 del suo Autoritratto come Santa Caterina d'Alessandria, che la National Gallery pagò la cifra di 3 milioni e 600 mila sterline (superata solo nel 2019 dai 4 milioni 777 mila euro sborsati da un privato per Lucrezia). Ben nota in vita, Artemisia cadde nel dimenticatoio per oltre due secoli: fu il grande storico dell'arte Roberto Longhi a riscoprirla nel 1916; la scrittrice Anna Banti a riproporla in un romanzo del 1947; Mary Garrard, apripista di una lettura dell'arte in chiave femminista, a rilanciarla nel 1989 come antesignana del riscatto delle donne. Da qualche anno la pittrice è un star. Lo provano i successi di mercato e il susseguirsi delle mostre, ma non solo. Su di lei un musical, un lavoro teatrale, un graphic novel... E si vocifera di un film e di una serie tv, dopo che è ad appropriarsi di lei stato addirittura il movimento Me Too. "Forte, indipendente, coraggiosa, passionale, ambiziosa. Artemisia è una figura straordinaria, di cui cerco di ricostruire un'immagine a tutto tondo, come artista e come donna", spiega Letizia Treves, curatrice della mostra londinese. "Non è l'unica pittrice ad affermarsi in un mondo di uomini, vincendo i pregiudizi dell'epoca: ci sono Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana...Ma loro provengono da un ambiente sociale molto diverso, ricco di cultura e buone frequentazioni. Mentre Artemisia a 18 anni è semianalfabeta (imparerà a scribacchiare più tardi), figlia di un pittore squattrinato e privo di contatti. Si fa strada da sola, senza neanche l'aiuto di un marito influente: il suo matrimonio, combinato in fretta per tacitare gli echi del processo, è con un pittorucolo inutile, che scompare quando lei ha 30 anni dopo averle dato 5 figli, di cui una sola supera l'infanzia. Artemisia può contare unicamente sulla propria determinazione". GIUDITTA SONO IO In mostra, due sue versioni di Giuditta che decapita Oloferne: in entrambe l'eroina biblica si contorce nello sforzo di far fuori il feroce assiro, aiutata da un'ancella, mentre il sangue schizza sugli abiti e scorre sulle lenzuola. "Credo che nessuno abbia ritratti i tema con tanta rabbia e crudo realismo", continua Treves. "Perfino il focoso Caravaggio ne ha dipinto una versione meno viscerale, in cui Giuditta è statuaria, immacolata, e l'ancella si limita a guardare. Le Giuditte di Artemisia, eseguite a ridosso del processo, sono state lette come una vendetta artistica contro il suo carnefice. Ma c'è di più: parlano della capacità della donna di dominare l'uomo. Una prospettiva femminile (e protofemminista), che ricorre nei suoi lavori e fa di Artemisia una straordinaria narratrice. Come artista vuol essere considerata alla stregua dei suoi colleghi maschi:"farò vedere a Vostra Signoria Illustrissima quello che sa fare una donna", scrive a un collezionista siciliano. Ed è una scaltra imprenditrice di se stessa, che compiace il mercato. A chiederle di rappresentare la storia di Susanna e i vecchioni, la casta fanciulla concupita da anziani lussuriosi, sono di certo i suoi committenti, solleticati dall'idea che fosse una bella donna a ritrarre una figura femminile nuda. Ma lei non esita ad assecondarli, tornando sul tema tre volte ( tutte e tre in mostra) a partire dal 1610, quando aveva solo 17 anni". Sempre al verde, anche quando raggiunge il successo, per la sua incapacità di gestire il denaro, Artemisia si affanna a curare i propri interessi economici perfino in amore: le lettere (piene di errori di grafia e grammatica) scritte al suo ricco amante Francesco Maria Maringhi sono appassionate e audaci, ma anche opportuniste e senza scrupoli nel chiedere favori. La mostra ne espone cinque, divertenti, curiose... In una, decisamente osé, gli intima di non masturbarsi davanti all'autoritratto che gli ha donato. Dopo un'infanzia difficile (il padre le insegna a dipingere, ma la sfrutta pure) e l'infame processo rabberciato da un matrimonio deludente, Artemisia si trasferisce a Firenze. E svetta: fa amicizia con il poeta Michelangelo Buonarroti il giovane pronipote del grande artista, che la introduce alla corte i Cosimo II de' Medici, dove è corteggiata per la sua arte e la sua avvenenza, impara a leggere e scrivere, si avvicina al teatro e alla musica, conosce Galileo Galilei e matura una personalità sempre più combattiva e orgogliosa. È la prima donna a entrare nell'Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. Inesorabilmente irrequieta e grintosa. Nel 1620 torna a Roma, nel '26 si trasferisce a Venezia, nel '30 a Napoli, dove trascorre gli ultimi venticinque anni della sua vita (interrotti solo da un breve intervallo londinese) e conduce un fiorente atelier. A richiedere il suo lavoro sono re, principi e prelati. "Per la Corona inglese dipinge il proprio Autoritratto come allegoria della Pittura", ricorda Letizia Treves. "Una tela molto significante: ritrae una donna sola che, ispirata, scapigliata, si rimbocca le maniche e lavora". Che stia ritraendo una delle sue eroine femminili? Giuditta, Susanna, Lucrezia, Cleopatra...Tutte forti e vulnerabili. come lei. Antonella Barina (Il Venerdì di Repubblica, 18 settembre 2020) |
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