Viaggio nei luoghi dove giunse Giasone. La tomba del tuffatore, il rapporto tra i greci e i lucani. E il mistero del canto delle sirene, che ancora incanta. Paestum. Basta costeggiare per un breve tratto il fiume Sele, l’antico Silarus. Nascoste dai canneti, piccole imbarcazioni di pescatori di anguille aspettano l’alba in un’atmosfera sospesa. I rumori dei campeggi nelle vicinanze scompaiono. Tra i campi bruciati, ronzio incessante e lontanissimi motori. In un attimo tutto è perduto. Tutto è come lo immaginarono sei secoli prima di Cristo. Raccontavano di Giasone e dei suoi compagni. Della celebre nave che prese il nome dal costruttore figlio di Arestore, Argo, e che dopo peripezie infinite tra il Mar Nero, l’Egeo, l’Adriatico, fiumi come il Danubio e l’Eridano (il Po), finì per ancorare proprio da queste parti. I cinquanta uomini di bordo, detti Argonauti, scesero a terra, lasciarono ben nascosto il vello d’oro (il sacro ariete alato) per cui erano partiti, e si misero a costruire un santuario in onore di Era Argiva. Ne resta il perimetro, oggi, tra i campi abbandonati, quasi invisibile, nascosto dall’erba. Sono poche pietre ma in quelle pietre risuona un tesoro. Spariscono anche i ronzii degli insetti. Resta soltanto la musica che suonò uno degli Argonauti, il divino Orfeo, mentre la nave, dopo aver sostato davanti al promontorio di Circe, avvicinava la sua punta a Salerno e poi seguiva la costa a sud verso la foce del Sele. Era una musica straordinaria e unica, capace di un malìa tale che gli uomini dell’equipaggio non ascoltarono neppure il richiamo seducente e omicida delle Sirene. Forse la cantavano ancora, mentre costruivano il tempio restituito alla luce dagli acquitrini nel 1927. Le metope che raccontano gesta eroiche, storie letterarie e danze leggere, si possono osservare in copia nella masseria che, sulla strada, è stata trasformata nel Museo Narrante dedicato a Era Argiva. Gli strepitosi originali invece sono stati spostati nove chilometri a sud, negli stessi luoghi in cui gli abitanti dei dintorni si trasferirono per sfuggire alle piene del fiume.La città fu chiamata dai greci d’Italia Poseidonia. Un secolo dopo, in mano lucana, prese il nome di Paiston. Sotto i romani venne infine ribattezzata Paestum. Di essa, restano molto più che pietre perimetrali di un santuario. Restano colonne doriche massicce, tre templi magnificamente conservati e di bellezza inaudita, esempi unici di fronte a cui ogni parola appare insufficiente. Forse il motivo di tanta eternità sta nella caducità da cui sorsero. I coloni che avevano velocemente abbandonato la Foce del Sele provenivano infatti da una delle città greche del sud Italia più lussuose e più effimere: Sibari. I primi ad arrivare, attorno al 600, avevano lasciato le coste calabre e la città ricchissima, ma sovraffollata. Novant’anni più tardi raggiunsero tutti gli altri, dopo che Sibari venne distrutta da Crotone. I tre templi che oggi contempliamo estasiati, li costruirono in quel secolo breve, dedicandoli a Atena (il tempio dette di Cerere), a Era (il tempio detto Basilica) e probabilmente a Nettuno, quello che è il più completo e impressionante. Meta obbligata del Grand Tour (necessario visitare il Museo Paestum nei percorsi del Grand Tour, poco lontano dal sito, a Capaccio), di chi si sfidava i pericoli dei luoghi paludosi, solitari, abitati da malattie e briganti, Posidonia, per tutti Paestum, ospitò fra gli altri, nel 1777, Giovanni Battista Piranesi, autore di tavole impressionanti. Chiusa da una cinta muraria lunga quasi cinque chilometri, la città però non è solo i suoi templi. Nello spazio pubblico dell’agorà, un ekklesiasterion (sede delle assemblee) fu costruito a inizio V secolo, e insieme all’heroon (edificio consacrato al culto di un eroe) domina sui resti delle abitazioni, sull’anfiteatro romano, le terme e altri santuari. Ma lo spazio principale, dopo i templi, fu costruito nel 1952 su progetto razionalista datato 1938: è un museo unico e ospita pezzi da capogiro. Vasi come il cratere d’Europa e il toro o l’anfora del pittore di Afrodite. E soprattutto la famosissima Tomba del tuffatore, scoperta in una piccola necropoli a sud di Poseidonia nel 1968. Le pareti interne della tomba accompagnavano il defunto tutto attorno al suo corpo con le immagini più dolci del suo percorso terreno: uomini sdraiati giocano a cottabo, lanciando gocce di vino in un bersaglio. Chi vince merita la dolcezza della musica e dell’eros. L’eros spinge a una dimensione spirituale superiore, come spiegò Platone. E infatti l’immagine finale, quella dipinta proprio sopra agli occhi chiusi del morto, raffigura l’uomo che si tuffa, slanciandosi perfetto contro lo sfondo bianco della pietra, curioso ormai del mare in cui sta per infilarsi, un mare che rappresenta l’aldilà, la nuova dimensione in cui sta penetrando.
“I lucani impararono molto dai greci ma anche i greci avevano imparato dagli etruschi… Venga con me” mi dice uno dei custodi storici del Museo, Nicola Verrone. Mentre ripercorre le glorie di ogni sala e invoca ristrutturazioni e ammodernamenti necessari, mi spinge giù nei sotterranei dove sono raccolte opere che prima o poi troveranno la luce che meritano. Racconta tutto quel che è possibile raccontare su una tomba lucana. Mostra ombre, simboli, colori. Spiega che i greci di Poseidonia impararono a dipingere le tombe dagli etruschi e che i lucani si mescolarono ai greci e a loro volta ereditarono da loro tecniche e immagini. È un vulcano di storie e alle storie antiche mescola le sue, quelle della sua famiglia e di chi vive oggi a Paesturm e eredita tradizioni millenarie. Quando mi saluta, indicandomi la via verso il sud, ho l’impressione una volta di più che i miti antichi non finiscano mai e che basti rileggerli negli uomini e nei luoghi antichi che essi continuano a abitare. Adesso per esempio, seguendo le indicazioni di Verrone, benché di greco ad Agropoli non ci sia più nulla di rilevante se non il nome, mi pare impossibile negare che sia su quel promontorio che Eracle si fermò di ritorno dalle sue fatiche in Iberia dove aveva catturato i buoi del gigante Gerione. E soprattutto mi pare impossibile negare che qualche decina di chilometri più a sud, a punta Licossa, la Sirena Leucosia potesse essere irresistibile per chiunque, anche per chi, come Orfeo, era capace di musiche superiori. Qui non doveva essere la musica infatti a sedurre i marinai, ma il sogno di una specie di paradiso terrestre. Così mi sembra di vederlo, Odisseo, al largo di questi scogli di pace assoluta, raggiungibili con una lunga camminata dal sentiero di Vaddunauto. Mi sembra di vederlo lì, in mare aperto, che dopo aver otturato le orecchie dei compagni con del miele compresso e aver loro ordinato di non dar retta per nessuna ragione al mondo alle sue suppliche, adesso, legato all’albero della nave, solleva i sopraccigli implorandoli di liberarlo e cambiar rotta, perché il paradiso gli sembra davvero a un passo. “Il Venerdì” 28 agosto 2015
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