NUOVI ARCHETIPI E CAMPI MORFOGENETICI
Nel suo libro A New Science 01 Life: The Hypothesis 0f Formative Causation (1981), Rupert Sheldrake, uno studioso di biologia, ha proposto una nuova teoria rivoluzionaria di come le cose viventi apprendano e assumano nuove forme. La sua teoria ci fornisce una spiegazione di come i nuovi archetipi possano esistere, e quindi di come possa cambiare la natura umana. Questa l'ipotesi di Sheldrake: un comportamento, quando venga ripetuto abbastanza spesso, forma un "campo morfogenetico" (vale a dire, che crea una forma). Questo campo (che Sheldrake ora chiama "morfico") ha una sorta di memoria cumulativa basata su ciò che è accaduto alla specie in passato. Tutti i membri della specie (non soltanto gli organismi viventi, anche le molecole delle proteine, i cristalli, e gli atomi) sono sintonizzati sul loro particolare campo morfogenetico, che si dispone nello spazio e nel tempo attraverso un processo detto di "risonanza morfica". La teoria di Sheldrake spiega in che modo negli esseri umani possano avvenire dei cambiamenti sostanziali (o archetipici). All'inizio, una modificazione di atteggiamento o di comportamento è difficile, ma via via che il numero di individui che cambiano aumenta, diventa sempre più facile anche per gli altri, e non soltanto per influenza diretta. Secondo Sheldrake, le persone si sintonizzano sul nuovo modello all'interno del campo morfico attraverso la risonanza morfogenetica, e ne sono influenzate, spiegando così come il cambiamento diventi sempre più facile. A un certo punto, il numero di individui necessari perché "la goccia faccia traboccare il vaso" è raggiunto: nell'inconscio collettivo esiste un nuovo archetipo. Lo stesso Sheldrake ha equiparato le due idee: Il metodo da me suggerito è molto simile all'idea di inconscio collettivo di Jung. La differenza più importante è che l'idea di Jung è stata applicata soprattutto all' esperienza umana e alla memoria umana collettiva. La mia ipotesi è che un principio molto simile operi in tutto l'universo, non soltanto negli esseri umani. LA CENTESIMA SCIMMIA: UN MITO DI OGGI La Centesima Scimmia è il nome di un nuovo mito. È una storia nata, scritta e ripetuta soltanto negli ultimi vent' anni. Pur essendo di origine assai recente, come i miti che ci raccontano la guerra di Troia, non è chiaro dove finisca il fatto e dove inizi la metafora. La storia si basa su osservazioni scientifiche relative alle colonie di scimmie che vivono in Giappone. A largo delle coste del Giappone, gli scienziati hanno studiato per più di trent'anni le colonie di scimmie che vivono su isole molto distanti le une dalle altre. Per osservare le scimmie, essi lasciavano sulla spiaggia delle patate dolci, che gli animali mangiavano. Le scimmie infatti uscivano dalla boscaglia per raccogliere le patate, e così facendo rimanevano completamente allo scoperto e potevano essere studiate. Un giorno, una femmina di 18 mesi di nome Imo, per la prima volta lavò la sua patata dolce in mare prima di mangiarla. Piace pensare che, senza pietrisco e senza sabbia, fosse più buona; e forse era anche leggermente salata. Imo mostrò alla madre e ai compagni come fare; i suoi compagni lo mostrarono a loro volta alle proprie madri, e poco alla volta, sempre più numerose, le scimmie cominciarono a lavare le patate, invece di mangiarle con la sabbia. All'inizio, impararono soltanto gli individui adulti che imitavano i figli, poi pian piano anche gli altri. Un giorno gli osservatori videro che tutte le scimmie di una certa isola lavavano le patate. Questo era già un fatto importante. Ma ancor più affascinante fu notare che quando accadde questo cambiamento, si modificò anche il comportamento delle scimmie di tutte le altre isole; ora, tutte lavavano le patate, nonostante le colonie degli animali sulle diverse isole non avessero contatti diretti le une con le altre. Era una conferma della teoria del campo morfogenetico, che poteva spiegare quanto era accaduto. La "centesima scimmia" era l'ipotizzata scimmia anonima che saliva di un gradino la scala culturale: quella il cui cambiamento comportamentale segnalava il numero critico delle scimmie che avevano operato il cambiamento; raggiunta quella soglia, tutte le scimmie di tutte le isole incominciavano a lavare le patate. La Centesima Scimmia è un'allegoria che dà speranza a chi ha lavorato per cambiare se stesso e per salvare il pianeta, chiedendosi se gli sforzi individuali avrebbero mai portato a qualcosa. Come abbiamo visto, la Centesima Scimmia è una dichiarazione che avvalora l'impegno per qualcosa, come ad esempio liberare la terra dalle armi atomiche, anche se l'effetto di tale sforzo rimane a lungo invisibile. Se esiste la Centesima Scimmia, deve esserci un equivalente umano di Imo e dei suoi compagni; qualcuno deve essere la ventisettesima, e l'ottantunesima, e la novantanovesima scimmia, prima che un nuovo archetipo possa esistere. L'ipotesi di Sheldrake ci fa capire come possa accadere il cambiamento della specie attraverso le azioni di individui che, uno alla volta, fanno qualcosa di nuovo. Stando all'ipotesi di Sheldrake, se il numero delle persone che lo fanno aumenta, il cambiamento diventerà sempre più facile, finché un bel giorno qualcuno sarà l'anonima, Centesima Scimmia. Eppure, uomini e donne per lo più non sentono il bisogno, né hanno abbastanza fiducia per affrontare il compito di cambiare il mondo. Chi ci prova ha l'incoraggiamento del mito della Centesima Scimmia, perché è un mito che descrive ciò che tutti siamo spinti a fare comunque. Ogni volta che ci riconosciamo in un mito acquistiamo forza. Un mito che provoca un lampo di intuizione ci aiuta a rimanere fedeli a ciò che ci commuove profondamente, a vivere il nostro sé più autentico.
Il mito della Centesima Scimmia non parla soltanto a chi sente la spinta interiore a rendere il mondo diverso; è anche una metafora di quanto accade nella psiche dell'individuo. Nel mondo interno, fare è diventare. Se noi ripetiamo per un numero sufficiente di volte un certo comportamento, spinti da un certo atteggiamento o da un certo principio, alla fine diventiamo ciò che facciamo.
Tratto da Jean S. Bolen |